L’Università motore di sviluppo per le aree deboli
di Gerardo Canfora
Esiste una consapevolezza diffusa che la presenza di una Università contribuisca allo sviluppo sociale, economico e culturale di un territorio. Ciò è particolarmente vero per gli Atenei chiamati a svolgere il proprio ruolo in territori deboli e soggetti a forti fenomeni di spopolamento.
Eppure, a questa crescente consapevolezza dell’importanza dell’Università, non corrispondono adeguati livelli di investimento.
Facciamo male in termini di investimenti complessivi. Secondo i dati ISTAT il nostro Paese è al penultimo posto in Europa per quota di 25-34enni in possesso di un titolo di studio terziario: 26,8%, contro una media Ue27 del 41,6%.
Facciamo peggio in termini di redistribuzione degli investimenti sui territori, dove meccanismi puramente numerici e poco attenti all’impatto ed alle condizioni di contesto, finiscono con il penalizzare pesantemente gli Atenei che operano in aree deboli.
Ne è un esempio il cosiddetto “costo standard” con cui vengono calcolati i finanziamenti alle Università. Il meccanismo, infatti, definisce numeri standard di studenti massimo e minimo per ogni Corso di Laurea, penalizzando le Università che hanno Corsi con meno iscritti rispetto alla soglia minima. Con le soglie definite in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale e i ben noti fenomeni di spopolamento che interessano le aree interne, è facile comprendere come tale approccio abbia effetti negativi sui bilanci delle Università che operano in tali aree.
Il costo standard, inoltre, considera solo gli studenti in corso. Se consideriamo che spesso alla debolezza dei territori si accompagnano fenomeni di povertà educativa, che rendono il compito formativo degli Atenei più difficile e impegnativo, anche dal punto di vista delle risorse da mettere in campo, si comprende come ci sia il rischio concreto di dare origine ad una vera e propria spirale negativa che spinge al ribasso la capacità degli Atenei delle aree deboli di investire in attività formative e di ricerca di qualità.
Un discorso simile si può fare per quanto concerne la “no tax area”, certamente una importante azione di sostegno agli studenti e alle famiglie meno abbienti. Va però detto che il mancato introito derivante dalla “no tax area” non è recuperato, se non in quota parte, dagli Atenei, essendo il fondo di ristoro limitato. Secondo i dati MUR, al nord la percentuale di studenti che pagano le tasse oscilla intorno al 70% mentre al sud scende a circa il 54%. Ancora una volta, il mancato ristoro totale si traduce in uno svantaggio per gli Atenei delle aree deboli, in particolare per gli Atenei delle aree interne del mezzogiorno che hanno una bassa percentuale di studenti paganti.
Due esempi per richiamare l’attenzione sull’urgenza di promuovere una revisione dei meccanismi di finanziamento delle Università, valorizzando maggiormente la dimensione di bene comune di un territorio. Non si tratta di invocare interventi straordinari a favore degli Atenei delle aree deboli, quanto piuttosto di trovare meccanismi strutturali capaci di garantire a tutto il sistema Universitario risorse adeguate a svolgere il ruolo di supporto dello sviluppo del Paese a cui è chiamato.
Foto di copertina Naassom Azevedo da Pixabay