“Atlante Appennino”. Racconto di un intreccio tra mare e montagna
di Elisa Veronesi
Un pomeriggio di tre anni fa, a Cannes, partecipai a un’intervista in occasione della mostra “Ciao Italia” sull’emigrazione italiana in Francia. Una delle organizzatrici dell’esposizione mi aveva chiesto di partecipare e di lasciare una mia testimonianza. Avrei dovuto fare un’intervista, che poi sarebbe stata raccolta insieme ad altre nel catalogo della mostra. Non mi ero preparata nulla di particolare da dire, non sapevo bene cosa mi avrebbero chiesto, arrivai in anticipo e mi sedetti a un grande tavolo in una sala dell’archivio municipale di Cannes. La prima domanda che mi fece l’intervistatrice fu: “c’est comment chez vous?”, mi può descrivere il luogo dal quale proviene? Una domanda semplice in apparenza, ma alla quale non seppi rispondere se non per accenni vaghi e poco significativi. Uscendo da quell’incontro, costeggiando il mare per ritornare ad Antibes, dove abitavo all’epoca, mi resi conto che forse quella domanda non me l’ero mai posta prima, e che necessitava non di una risposta, ma di una serie di risposte, di voci che raccontassero un luogo complesso.
Qualche anno prima, nel 2019, era uscito un articolo sul sito Doppiozero dal titolo significativo: “Appennino imprendibile”. L’autore, l’antropologo e scrittore Matteo Meschiari, sottolineava quanto manchino narrazioni dell’Appennino, quanto manchino autori, grandi scrittori d’Appennino, autori che si ritrovano invece a scrivere di Alpi, pianure, zone costiere.
Dalla mancanza di un immaginario appenninico alla mia incapacità di descrivere, di parlare di questo luogo nasce la necessità di scrivere questo libro, che tempo dopo avrebbe preso il titolo di “Atlante Appennino”. Atlante proprio a sottolineare la dimensione terrestre, geografica, geopoetica dalla quale nasce. Ma un atlante che non vuole misurare, tracciare confini e conquistare terreno, un atlante di cartografia potenziale, che vuole ripopolare le carte da ciò che fino ad oggi abbiamo lasciato fuori: gli esseri viventi. Questo atlante prova così ad essere brulicante di vita, umana e non umana, e tenta di dare voce a un territorio complesso, non definibile in maniera univoca, sfuggente, come sfuggente è la terra friabile dei calanchi in copertina, o il gesso residuo di un antico mare. Il fatto che per parlare di Appennino inizi a raccontare partendo dal mare vuole mettere in evidenza il legame che queste terre alte mantengono con il grande blu, un legame spesso dimenticato a discapito del legame con la montagna. L’Appennino resta un intreccio significativo tra mare e montagna.
Per dare voci a questo territorio ho scelto la strada dell’ecobiografia. La parola ecobiografia è composta dalla radice -eco, dal greco oikos ovvero “casa” e biografia, scrittura della vita. L’ecobiografia consiste nel raccontare la propria storia o le storie di una comunità, senza escludere gli esseri viventi con i quali siamo stati e siamo in contatto, animali o piante, né il territorio che abbiamo abitato. La nostra storia insomma, non è composta solamente da noi stessi in quanto soggetti umani, ma è strettamente legata a tutto ciò che ci circonda, che abitiamo e che, allo stesso tempo, ci abita. Questo concetto, che è poi una vera e propria pratica, è stato elaborato dal filosofo francese Jean-Philippe Pierron, in particolare nel suo libro “Je est un nous” (Acte Sud) che lo utilizza per esplorare questioni legate all’ecologia, alla medicina e all’architettura.