Appennino e aree marginali. Ripensiamo il welfare per riabitare i paesi?
di Adelina Picone
Si apre il dibattito dopo l’articolo “La miglior politica per i giovani è investire sulla terza e quarta età“
Piero Lacorazza nel suo editoriale ha posto l’accento su alcune questioni cruciali, per guardare in maniera propositiva alle marginalizzazioni ed agli spopolamenti, forieri di abbandono e depauperamento dei paesi delle aree interne, appenniniche in particolar modo. Il suo incipit affonda le radici nelle geografie, quello sguardo verticale all’appennino è innanzitutto un appello a stare dentro i contesti, a conoscerne profondamente ragioni, storie, caratteristiche, ed è esattamente convergente con il punto di vista del Master ARÌNT (Master di II livello “Architettura e Progetto per le Aree Interne e per i Piccoli Paesi” dell’Università Federico II).
Il discorso sulle aree interne, nei dibattiti scientifici e non, di grande attualità anche grazie al PNRR, accoglie una serie antonimi: polpa/osso, città/campagna, uomo/natura, crescita/sviluppo, che rappresentano di fatto delle modalità tra loro oppositive di guardare al tema generale, a cui sarebbe importante aggiungerne altre, come: passato/futuro, patrimoni/comunità, borghi/paesi. La fortunata definizione di Manlio Rossi Doria alludeva ad una dicotomica caratterizzazione specificamente geografico-morfologica, letta come concausa degli squilibri, in una visione in cui geografie e storie sono indissolubilmente connesse, sottolineando al contempo la consistenza della “struttura ossea” come armatura portante del sistema-paese e non tanto la dualità interno/costiero. Quello sguardo teso a contrapporre mare e montagna, città e campagna, uomo e natura…è invece di tutt’altra matrice, un punto di vista che ha permeato l’intero novecento e che ha portato alle deviazioni antropocentriche che rendono evidente quanto sia urgente trasformare quegli antonimi in legami, leggendoli in termini di vere e proprie alleanze.
La questione delle aree interne, che pur soffre di una verbosità acuita dalle policrisi[1] dei nostri giorni, è sostanzialmente una questione di rigenerazione a tutto tondo che coinvolge aree, paesaggi e paesi marginalizzati. Rigenerazione che chiede ricerca, con buona pace dei facili soluzionismi. Una ricerca a ben vedere in itinere, che si svolge sul campo, che ha impegnato ed impegna le comunità, gli studiosi, gli enti territoriali (comuni, unioni di comuni, regioni, governo centrale), conducendo a sperimentazioni di policies e di strumenti di governance, condensata nelle visioni strategiche promosse dalla SNAI ma anche nelle procedure dei Contratti di Fiume, che spesso investono le stesse aree dei Progetti Pilota della Strategia. Una ricerca che pone due parole in primo piano: Rigenerare e Riabitare, anzi Rigenerare per Riabitare, perché l’effetto ultimo, il dato certamente più pesante, è l’alto indice di spopolamento che deriva dalla marginalizzazione.
I temi che coinvolgono la rigenerazione, sia essa urbana che sociale culturale ed economica, tendendo ad una vera e propria palingenesi di matrice olistica, sottraggono protagonismo al bene in quanto tale a vantaggio di visioni processuali che promuovono pratiche, per lo più sperimentali, per le quali è necessario un agire di ricerca, in grado di innescare processi circolari. Processi in cui i beni, e tra essi i patrimoni immobiliari, i paesaggi, le architetture stesse, insieme alla loro riqualificazione (valorizzazione) diventino parte essenziale dello sviluppo, ma non del suo innesco. Tutto è connesso scrive Francesco nell’enciclica Laudato Si: “non ci sono crisi separate una sociale, una ambientale….le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale”[2], l’approccio integrale richiede, nell’innescare processi di rigenerazione, una interazione tra saperi, una interazione di natura transdisciplinare e la capacità di attraversare le scale dimensionali connettendole tra loro.
Riabitare, oltre a porre l’accento in modo inequivocabile sulla costruzione delle comunità (costruzione che è essa stessa un progetto), presupposto primo perché un luogo venga abitato, è una parola molto legata ad un certo alveo culturale, che gravita intorno ai promotori della SNAI e che, a partire da un libro-progetto, ha trovato casa nell’ associazione “Riabitare l’Italia”[3] ed in numerose altre reti di studio e di ricerca, che ambiscono a divenire laboratori di progetti, a cui il Master ARINT[4] è, sin dalla sua fondazione, molto vicino. Mossi da una necessità di far emergere fuochi di rigenerazione, esempi positivi di luoghi spopolati in abbandono percorsi da nuova linfa vitale, con l’idea di studiarli e farli conoscere, si aggregano studiosi, scrittori, ricercatori, amministratori dando vita ad una serie di pubblicazioni, condividendo sostanzialmente un punto di vista ed un certo modo di guardare al tema e al problema. In particolare gli ultimi due libri: Metromontagna e Contro i Borghi muovono da assunti che rappresentano due delle condizioni necessarie all’innesco dei processi rigenerativi:
1.La necessità di una nuova alleanza, in termini di vero e proprio mutuo soccorso, tra aree metropolitane ed aree interne;
2.L’esigenza di allontanare la visione vetero-estetizzante che porta i paesi delle aree interne ad essere denominati borghi, cartoline in cui si condensa un immaginario da propagandare. Una visione che stimola la cristallizzazione dei patrimoni immobiliari e dei paesaggi nell’industria del turismo, come falso viatico verso il riabitare.
L’esperienza formativa del master, a partire dall’istanza del rigenerare per riabitare, sperimenta una circolarità di processo basata sulla formazione-ricerca-azione, considerando la formazione come una vera e propria leva di innesco, soprattutto ove si intenda dare spazio all’innovazione (non solo tecnologica) nella strutturazione delle pratiche rigenerative.
Il Master, rivolto a giovani architetti/ingegneri/laureati in Beni Culturali, nelle tre annualità concluse e nella quarta in corso, conduce quindi sperimentazioni sul campo di ricerca-azione, anche in relazione alla necessità di individuare, nell’ambito di questi processi rigenerativi che coinvolgono i paesi ed i territori delle aree interne, la dimensione appropriata e conforme al progetto di architettura, al progetto urbano, al progetto di paesaggio, al piano.
Si delinea infatti un percorso progettuale che assume sempre di più i contorni dell’elaborazione di strategie, che individua dimensioni territoriali a geometria variabile, che ragiona a partire da visioni reticolari, reti territoriali non inscrivibili in perimetrazioni consolidate, spesso non convergenti con quelle delle piani esistenti, reti che dimostrano l’ostatività dei confini[5].
Le esperienze del passato, imperniate intorno alle necessità delle ricostruzioni, non tornano utili per trarre lezioni, non certamente le esperienze delle ricostruzioni post-terremoto, dove nella maggior parte dei casi si è pensato che recuperare il patrimonio e restaurare gli immobili avrebbe portato automaticamente al riabitare, fallendo clamorosamente, e gli spopolamenti di “borghi” accuratamente restaurati ne costituiscono l’eclatante evidenza.
Si aprono margini quindi anche per una riflessione interna agli ambiti disciplinari, che sarebbe bene affrontare nelle scuole di architettura, intorno al ruolo ed al senso, nei contesti di cui ci occupiamo, del Progetto di Architettura|Urbano|Piano|Progetto Strategico.
E. Morin nel suo ultimo libro “svegliamoci”, identifica il nocciolo della policrisi contemporanea come una crisi del pensiero, è il pensiero contemporaneo a dover trovare soluzioni alternative, per costruire un possibile futuro al tempo dell’antropocene.
Nessuno si salva da solo: è sempre il sistema territoriale, accogliendo e strutturando la dimensione delle reti di paesi, il presupposto e lo scenario della rigenerazione, insieme alla prospettiva di connessione ed alleanza con le aree densamente urbanizzate[6].
Il punto di vista ed i percorsi didattici del Master vengono costruiti ed affinati di anno in anno, seguendo il filo delle esperienze ma sempre a partire da una visione sfocata, che orienta lo studio conoscitivo e l’interpretazione dei dati, e che, individuati i bisogni e coinvolte le comunità locali, conduce a co-costruire la visione strategica che guida le trasformazioni. In mancanza di una strategia territoriale le trasformazioni si susseguono senza una logica interna e diventano niente altro che un collage di azioni tra loro sconnesse, un rischio in agguato, non solo per i paesi delle aree interne, nella risposta a tutti i bandi del PNRR[7].
Una riflessione critica condotta proprio in relazione alla condizione di perenne emergenza del momento storico che stiamo vivendo ed alle prospettive che si aprono grazie ai bandi PNRR, che sembrano ricondurre alle vecchie dinamiche delle ricostruzioni post-terremoto, e conoscendone gli esiti nefasti sui paesaggi delle nostre vite, ha portato il Master, nell’intraprendere la quarta edizione tuttora in corso, ad una ulteriore sperimentazione didattica. Una sperimentazione che pone l’attenzione sui territori di provenienza degli allievi, individuando i temi e le progettualità insieme agli allievi ed alle loro comunità, costruendo relazioni con gli enti territoriali, mettendo loro a disposizione oltre all’esperienza ed alle competenze dei docenti del Master, anche il bagaglio di relazioni costruito in questi anni, nel rispondere eventualmente alle progettualità richieste dai bandi PNRR. Una sperimentazione che parte dal presupposto che la formazione, anche quella erogata dal Master, è uno dei fuochi di rigenerazione, un fuoco potentissimo se si pensa che i giovani professionisti avranno, anche grazie al percorso condotto nel Master, possibilità di incidere sulle trasformazioni future dei territori che abitano, e, questione di non poco conto, di ritornarci.
Un progetto di ricerca, proposto dal Master ARÌNT insieme al Politecnico di Torino ed all’Università di Palermo per un bando FISR (purtroppo non finanziato), poneva l’accento sulla necessità di pensare a nuove forme di WELFARE (ne era proprio l’acronimo: WEL –Forme Altre per aree interne REsilienti), strumenti decisionali, programmatici e progettuali per prendersi cura di anziani, studenti e lavoratori nei paesi delle aree interne, rispondendo in un certo senso alle domande che pone Piero Lacorazza su giovani, anziani e costruzioni di futuro per i paesi.
Il progetto si rivolgeva a tre fasce sociali e di età: anziani, studenti e giovani lavoratori (tra cui i “ritornanti”), prefigurando nuove forme di welfare, atte a costruire nuove figure professionali, ponendo al centro la formazione, fondandosi su forme produttive legate alla creatività e alla cultura, connettendo assets di sviluppo legati alla green e alla blue economy, alla valorizzazione dei beni ambientali e del patrimonio pubblico inutilizzato. La proposta prefigurava collaborazioni delle università con le amministrazioni locali, con le reti di comuni, le associazioni e le popolazioni residenti, in incontri di ascolto, facendo emergere esigenze e visioni, da convertire in strategie territoriali interagendo con gli enti regionali e statali.
Si delineavano proposte sperimentali per programmi e progetti da inserire nella seconda fase della SNAI, occasioni di un patto tra città e aree interne dentro politiche nazionali ed europee, a partire dai Fondi strutturali 2021-2027.
Un progetto che ragionava sul rischio sanitario legato alla preponderanza di anziani nei paesi, prefigurando forme spaziali e organizzative per coniugare l’assistenza domiciliare e la telemedicina, con l’attivazione delle abilità e competenze (artigianali, artistiche, culturali, agricole, culinarie) degli anziani come potente medicina dello stare assieme. Presidi socio-sanitari diffusi da incrociare con il turismo relazionale, trasformando il ruolo degli anziani da semplici destinatari di cure ad attori dello sviluppo.
Si pensava di trovare per lo smart working risposte fuori le mura domestiche, entro strutture di co-working in grado di offrire servizi aggiuntivi messi a disposizione dalla Pubblica Amministrazione o da specifici soggetti imprenditoriali, potenziali incubatori di energie, rivolti anche ad accogliere i giovani di ritorno, recuperando immobili e spazi aperti per un co-working evoluto, per ospitare laboratori culturali e far crescere le imprese dei giovani, con spazialità interne versatili.
Si rifletteva sulla condizione dei giovani adolescenti, quelli con il “web in testa e i morsi della taranta sul corpo”, che nei paesi soffrono una condizione di isolamento culturale e sociale, pensando a quanto sia importante prendersi cura della loro crescita, sviluppando progetti d’impresa per ospitare uno studio smart e collettivo, occasioni di socializzazione, di formazione e di creatività. Le spazialità di tanti edifici abbandonati di grandi dimensioni potrebbero accogliere progetti di questo tipo, anche diffusi sul territorio e connessi in reti, da realizzare costruendo partnership tra cittadini, Associazioni, Fondazioni, Enti del terzo settore, Università, Centri di Ricerca e di Alta Formazione, Regioni e Comuni.
E se provassimo veramente a farlo?
NOTE
[1] Morin E. (2020), Sur la crise, Flammarion
[2] Papa Francesco (2015), Enciclica Laudato Si’, pag.132
[3] https://riabitarelitalia.net/RIABITARE_LITALIA/
[4] https://masterdiarc.it/arint/
[5] Interessante al proposito lo scritto Confini di Fabrizio Barca in Cersosimo D., Donzelli C., a cura di (2020), Manifesto per Riabitare l’Italia, Donzelli editore, pag. 97.
[6] Barbera F, De Rossi A., a cura di (2021), Metromontagna, Un progetto per riabitare l’Italia, Donzelli editore
[7] Barca F. (2021), Disuguaglianze Conflitto Sviluppo, la pandemia, la sinistra e il partito che non c’è, Donzelli editore
Credits. Foto copertina di Claudia Peters da Pixabay