C’è da fare, nei paesi
Si dice che l’essere umano cammini da quasi cinque milioni di anni. Ha camminato fino a ieri. Poi la guerra – la seconda grande guerra del Novecento – ha spazzato via tutto. Anche questo. Leggo “Il sergente nella neve”, “La casa in collina”, “Il sentiero dei nidi di ragno” e mi sento tutto in quei passi – inesauribili – che segnano il giorno e la notte, l’estate e l’inverno, come qualcosa d’essenziale e naturale.
Camminare è sempre stato essenziale e naturale. Coprire distanze. Quanto era distante, anche solo una manciata d’anni fa, casa mia da Firenze? Un giorno a piedi o anche meno. Un giorno d’aria, vissuto seguendo il flusso naturale del tempo. Si partiva – Decathlon ancora non esisteva – con un paio di scarpe rattoppate senza sapere minuto per minuto che temperatura ci sarebbe stata e se il cielo avesse sparso pioggia o neve.
Oggi l’obesità (quantomeno in Occidente) è un problema straripante e l’idea di fare anche solo due rampe di scale fa inorridire la maggior parte delle persone. Ecco cosa ci ha lasciato in eredità il ruminìo del progresso: torri frigorifere, trincee di divani e soprattutto automobili, tecnologiche ferraglie tinteggiate e ruggenti, miliardi di scatole viaggianti accatastate ingolfate stritolate in ogni angolo di pianeta, macchine che s’offrono di prendere il posto delle gambe, dei polmoni, di farci risparmiare tempo e fatica.
La parola d’ordine dell’homo capitalisticus è tempo: guadagnare tempo, fare più in fretta sforzandosi di meno. Come se sforzarsi fosse il problema definitivo da debellare. Leggo anche di nuovi metodi di apprendimento, che consentirebbero di imparare a memoria una pagina intera semplicemente guardandola per qualche secondo.
In effetti perché andare a piedi in biblioteca o in libreria, prendere un libro – anzi ordinare un libro, così da coltivare la magia dell’attesa – toccarlo, sfogliarlo, annusarlo, leggerlo e rileggerlo, in quiete, lentamente? Perché? Per l’uomo di oggi, che macina e macera, che produce e consuma e spreca a ritmi forsennati e insostenibili giusto per non concedersi il tempo di guardarsi allo specchio e di dirsi anche approssimativamente a che cosa assomiglia, tutto questo è folle, romantico, tutto questo sta nei libri, appunto; per l’uomo di oggi non è proprio concepibile pensare di tornare indietro(?).
Cosa farebbe la maggior parte della popolazione occidentale senza essere perennemente connessa quasi esclusivamente allo scopo di urlare di sé, del proprio io costruito appositamente per apparire?
L’uomo di oggi ha bisogno di accalcarsi e di gridare perché nel silenzio sarebbe costretto ad ascoltarsi. Ha bisogno di sapere qual è il suo posto-auto, quant’è distante dal suo letto, dal suo divano, e quanto dista il supermercato, il centro commerciale, il tabaccaio. Tutto dev’essere vicino e immediato, laddove vicino significa proprio vicino, prossimo, imminente.
Lo sforzo non è più concepito. Servi robotici come Siri devono eseguire tutto impeccabilmente per noi. Se mancano un colpo la rabbia divampa, diviene frustrazione e vendetta contro la promessa digitale.
Sull’Appennino a ottobre cala una nebbia di sigaro pensoso tra i castagni affaccendati. Gli esseri umani se ne sono quasi tutti andati. Restano i vecchi – pochi, forse solo i ciechi, i sordi, i visionari, i non-sedotti – e qualche strana altra figura. Gente da basto, da bastone e da galera scriveva Giovanni Lindo Ferretti.
L’Appennino è un museo chiuso per delusione. Le porte sono aperte: il disagio è accessibile. I paesi – ciò che resta dei paesi – è un concerto di voci fantasma, sopite, di tracce che esondano dappertutto. Piantate, abbandonate, divorate dal bosco. Qualche paese resiste: ha una bottega, un circolo, una chiesa dove a volte gravita una messa.
I paesi sono anagrammi di parole ariose e benedette come possibilità, opportunità, idee, spazio, futuro. Nei paesi c’è da fare. Sono campi dissodati da seminare. Hanno tutto quello che manca nei luoghi dove l’uomo ha sversato la sua smania di cose: i paesi hanno tempo, spazio, hanno silenzio e aria buona; oggi hanno anche strade, tutto.
Chi un tempo venne via da questi luoghi per cercare fortuna lasciava alle sue spalle sentieri dissestati, case che di sera s’accedevano col fuoco. Oggi, in quegli stessi luoghi arrivano la fibra e i corrieri Amazon; le parabole captano a San Benedetto in Alpe come a New York. Se per andare a scuola occorre prendere uno scuolabus, c’è anche da dire che ancora, nei paesi, d’estate le persone buttano nell’aia una tavola di legno e mangiano assieme. Siedono fuori dalle porte e conversano, aspettando la sera. Tutto è attitudine. C’è chi pensa che ormai sia impossibile fare crescere un bambino, una bambina, in questi luoghi; che farlo significhi condannarli all’emarginazione, alla solitudine, all’infelicità.
È possibile che chi ha questi pensieri abbia visto poco o male. Che non si sia mai avvicinato. Che abbia soltanto sentito dire. Che si sia fatto un’idea senza immergersi, senza approfondire. Fino a pochi anni fa, alla domanda cosa vorresti fare da grande? i ragazzi rispondevano il dentista, l’avvocato, il geometra, l’architetto, l’ingegnere. Chi è che oggi pensa ancora che nel 2030, fra poco meno di dieci anni, possano veramente servire tutti questi web designer o tutti questi programmatori? Forse fra dieci anni troverà più facilmente lavoro un pastore, un cultore di galline livornesi, un poeta che saprà potare i castagni, seccare marroni, batterli, macinarli, caricarseli in spalla e portarli nei paesi barattandoli coi sorrisi, coi pezzi di pane, il formaggio di capra e le patate rosse.
Lo diceva Battiato anni fa, che il giorno della fine non ti servirà l’inglese. La pandemia in corso ha detto poco e niente. Ha detto a chi già sapeva. Agli altri ha solo suggerito altra rabbia. Molti aspettano ansiosi le riaperture, alcuni – purtroppo non pochi – giusto per riversarsi in massa come iene su cadaveri d’oggetti ancora luccicanti da sfoggiare, pronti a sfiorire non appena vengono posseduti.
Oggi non servono già più, le cose fino a ieri ardentemente desiderate. L’Italia sta in piedi senza uno scheletro che la sorregga. Vive poggiando su un’anca, su un gomito, sul naso. Ha fatto a meno delle gambe, delle braccia. Della Storia. L’Italia non nasce nei fast-food. Ha radici funginee, s’inabissa dove polipe radici s’accaparrano acqua e nutrienti. L’Italia è interna. È fatta di granelli, d’invisibili gesti d’eroismo quotidiano. Un tempo – prima di incistarsi a venerare il denaro – l’Italia era credente. Ribolliva da capo a piedi. La montagna era viva, era vita. Oggi montagna significa sci. Chi ci abita è un folle, un derelitto. Uno che non ha ancora capito come funziona. Ribaltare quest’assurda e deleteria prospettiva è un compito urgente che non può più aspettare.
Credits: foto di Emiliano Cribari per Civiltà Appennino (https://www.facebook.com/CiviltaAppennino/photos/pcb.336677634409738/336676814409820/)