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Civiltà Appennino

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La femminilità, il sito archeologico di Sepino e la dea Mefite

di Gianni Palumbo

 

Poco prima della pandemia da SARS-CoV-2, durante uno dei miei frequenti viaggi di lavoro per ricerche floro-faunistiche in Molise, camminando per le vie del centro, a Campobasso, mi imbattei in un manifesto (e in un’ammaliante poesia, che ne arricchiva estetica e apparato iconografico … la riporto in calce a questo articolo) che pubblicizzava una mostra su uno specifico ritrovamento, considerato rilevante dal punto di vista scientifico, in una delle tante aree archeologiche di cui è piena la nostra Penisola. In quella circostanza scrissi, di getto, un breve post su un social network, ma adesso che la luce s’assottiglia, ora che fa freddo e il respiro della Natura è sospeso e le brume invernali hanno il sopravvento prima di cedere nuovamente il passo al sole, ho pensato di trasformare in un articolo quell’inciampo in una statuetta, ritrovata in un luogo dell’Appennino, che parla di femminilità, di una dea e dell’acqua.

Avevo già visitato il meraviglioso sito di Altilia, in agro di Sepino; mi ci avevano accompagnato, alcuni anni fa, gli amici di San Giuliano del Sannio, ma non ebbi modo, a quel tempo, di conoscere uno dei tanti aspetti legati alla ricchezza di questo sito che ho approfondito più tardi.

Proprio nella zona archeologica dell’ampia vallata del fiume Tammaro è stata recentemente ospitata la mostra “La Dea dei canneti fruscianti”. Il riferimento è al santuario della Dea Mefite, ubicato tra l’insediamento fortificato di Terravecchia e il florido abitato, con strutture monumentali, di Saepinum. Si suppone che il sito ospitasse anche uno dei maggiori luoghi di culto del Sannio Antico. Si tratta del culto di una divinità femminile, Mefite, dea che sovrintende alla sfera amorevole della maternità nonché degli affetti domestici ma anche alle attività lavorative connesse al funzionamento della famiglia e quindi, per estensione, oltre che a sovrintendere e favorire la procreazione, anche alla fertilità delle messi, alla buona salute dei pascoli e alla ricchezza degli armenti.

Gli scavi, nel tempo, hanno restituito diversi oggetti della vita quotidiana che si svolgeva nel recinto sacro e tra questi una meravigliosa statuina in bronzo, raffigurante una donna giovane, affascinante, con la mano sinistra protesa in avanti e contenente un’anatra, in particolare un Anas clypeata (in italiano conosciuta come “mestolone”, per via del becco lungo e largo), anatide migratore molto bello e appariscente. Si presume che l’anatra migratrice segnasse un riferimento all’alternarsi delle stagioni, essendo nei pressi di Sepino presente una zona umida che è punto di riferimento per le specie acquatiche come questa. Più in generale l’anatra, in estremo Oriente è simbolo dell’amore coniugale mentre in sud America è considerata la mediatrice fra cielo e terra in quanto le si attribuisce il merito di essersi immersa nelle acque del diluvio per riportare a galla il fango della creazione con cui si ricostituì la vita sulla terra. Fra molte tribù dei nativi nord Americani, l’anatra è simbolo di guida infallibile, motivo per cui le piume delle anatre si adoperano in diverse cerimonie religiose.

La figura femminile della dea con l’anatra, che sinceramente mi colpì moltissimo, è posta su un piedistallo che reca un’iscrizione in lingua osca. Tale antica iscrizione ha permesso agli archeologi di identificare, presumibilmente (o potrebbe trattarsi di una offerente) proprio la dea Mefite (pur non essendo nominata in maniera esplicita) con le sembianze della bella e giovane donna, protettrice dell’universo femminile. Una presenza forte che si fa carico delle condizioni specifiche legate alla fecondità, al parto, alla vita quotidiana della famiglia e al lavoro. Insomma, la donna come figura che migliora l’umanità stessa, abbrutita e inviperita dall’azione guerrafondaia degli uomini e dalla forza di corruzione che ne deriva.

 

Luoghi dedicati al culto della dea Mefite ve ne sono diversi in Italia ma è sull’Appennino centro-meridionale che si trovano quelli più significativi e antichi.

 

Tra gli altri e oltre a quello di Altilia, in Molise, meritano citazione Grumentum e Rossano di Vaglio in Basilicata. Ovunque i luoghi di culto di Mefite sono situati in ambienti caratterizzati, in genere, dalla presenza di acque fluviali o lacustri.

Le antiche popolazioni dei territori italici, in particolare al sud, hanno potuto dedicarsi al culto di questa figura femminile perché alla femminilità è da sempre affidato il compito salvifico per un’umanità disgregata e molto disinvolta, sprecona, terribilmente vocata -in alcuni periodi storici- ad autodissolversi (è il caso della continua distruzione degli ecosistemi in quest’epoca di iperliberismo sfrenato che depaupera la biodiversità e favorisce lo spillover di numerosi virus che potrebbero provocare nuove pandemie).

Pensando alla dea delle sorgenti e delle acque, vi è da dire, inoltre, che dopo la romanizzazione del territorio italico, la dea Mefite è stata progressivamente connessa a un aspetto deteriore, legato alle esalazioni delle acque sulfuree o delle acque stagnanti, e quindi con forte ipossia, da cui poi è derivata l’indicazione, in accezione negativa, di acque mefitiche.

Ed è l’acqua l’elemento cardine intorno a cui il culto della dea Mefite si sviluppa e fortifica. E sull’acqua occorre ancora specificare che è a partire dal Neolitico (tra il VII e il VI millennio a.C.) – durante il quale gruppi di umani provenienti dalle sponde orientali del Mediterraneo introducono, in diverse aree dell’Appennino, l’agricoltura e l’allevamento del bestiame – che diventa elemento naturale caratterizzante gli insediamenti stabili, costituiti da piccoli villaggi, in cui le attività umane si diversificano e intorno ai quali il culto e la devozione per l’acqua, e ciò che ci gira intorno e la caratterizza, diventano fatti sostanziali e imprescindibili.

Sarà poi nei millenni successivi, in particolare nell’età del bronzo (II millennio a.C.) che lungo la dorsale montuosa italiana si svilupperà la “cultura appenninica”, consolidando i villaggi stabili le cui genti si insedieranno a ridosso dei bacini fluviali, su alture naturalmente difese. Ogni villaggio sarebbe sorto in prossimità di sorgenti e preferibilmente su crocevia delle rotte di transumanza.

Nei secoli successivi – nel mentre i greci si insediarono progressivamente lungo la linea costiera del sud Italia e nelle pianure adiacenti – sulle alture si consolidavano gli insediamenti delle popolazioni di origini osco-sannitiche provenienti dall’Appennino centrale. E in questi insediamenti nacquero veri e propri santuari che spesso inglobano le sorgenti d’acqua o sono ad esse molto prossime. Tra le divinità venerate, molte sono tutte al femminile e alcune hanno caratteristiche spiccatamente greche, come Afrodite, dea della bellezza, dell’amore, della primavera e Artemide, dea degli animali selvatici, della caccia, delle foreste, protettrice della verginità. Poi ve ne sono altre, la cui origine risiede nel pantheon appenninico e tra queste, in particolare, spicca proprio Mefite, protettrice delle sorgenti, una divinità  che fa da mediatrice, “colei che sta nel mezzo”, pertanto ha il potere della mediazione e sovrintende e accompagna la complementarità o l’opposizione tra due principi, tra due situazioni, tra due circostanze, per esempio il passaggio tra i vivi e i morti, il giorno e la notte, il caldo e il freddo, ma anche tra popoli e circostanze sociali e politiche differenti sui territori. Una vera dea appenninica, “poliedrica e multiforme” (la definisce Giovanna Falasca, 2002), rappresentazione della Grande Madre, poi trasformata in epoca romana e in epoca cristiana, in una sorta continuità tra culto pagano e culto cristiano.

 

SONO LA DEA DELLE ACQUE E DEI CANNETI FRUSCIANTI

Sono la fiamma perenne

che rischiara la tetra penombra degli antri,

Sono l’alito di vento

che fa risuonare le aspre selve,

Sono il caldo raggio di Sole

che porta a maturazione le messi,

Sono la vita

che genera la vita.

Non ho vincoli.

Tutto è in me.

 

 


credits foto

In copertina: Altilia, Sepino – Basilica – panoramio.jpg – Pietro Valocchi, CC BY 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/3.0>, attraverso Wikimedia Commons

in pagina . Credits G. Palumbo. Saepinum, nella valle del Tammaro (Ph. G. Palumbo) e foto della statua della Dea Mefite di Altilia tratta dal sito web: https://quotidianomolise.com/la-dea-dei-canneti-fruscianti/ (immagine modificata)

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Bibliografia

Caiazza (a cura di) Italica ars. Studi in onore di Giovanni Colonna per il premio “I Sanniti”, Piedimonte Matese, 2005;

Calisti, Mefitis dea italica “regina” e la sua “degenerazione” in ambiente romano, in «Studi e materiali di storia delle religioni», 70/2 (2004), pp. 237-284

Cattabiani – Volario. Simboli, miti e misteri degli esseri alati: uccelli, insetti e creature fantastiche. Oscar Saggi Mondadori, 2000;

Falasca – Mefitis, divinità osca delle acque (ovvero della mediazione). in «Eutropia», II/2 (2002), pp. 7-55;

L. Nava – Per una storia dell’archeologia dell’acqua in Basilicata, in «Archeologia dell’acqua in Basilicata», Soprintendenza Archeologica della Basilicata e Consiglio Regionale di Basilicata. Potenza, 1999;

Matteini Chiari e V. Scocca – Sepino. Dal monte alla piana: Terravecchia, San Pietro di Cantoni, Saepinum, in ArcheoMolise n. 27 Anno VIII, 2017.

Gianni Palumbo
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