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Civiltà Appennino

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Gli anni Ottanta, la questione meridionale e la provincia italiana

di Toni Ricciardi

Gli anni Ottanta sono una chiave di lettura per la provincia italiana? La questione meridionale ha affossato i piccoli comuni?


 

Da sempre esiste una dicotomia, o almeno esiste da quanto si è iniziato a riflettere sul tema, sul come si sviluppi la dimensione umana nelle città (spazio urbano) e nelle piccole realtà, ovvero nei piccoli paesi.

Questa dicotomia, che ha interessato nei secoli tutto il mondo, ci ha consegnato un portato di riflessioni e di concetti che si sostanziano nel confronto tra innovazione e continuo cambiamento nello spazio urbano e letture che a prima vista potrebbero sembrare romantiche e, se proprio vogliamo sottolinearlo senza remore, conservative. La città offre servizi, contaminazione tra persone e culture, appunto innovazione e iper-connessione con il mondo, i paesi, o meglio, la provincia, offre un mondo immutato, tradizioni, senso di comunità, senso di staticità. In questi ultimi esiste un sistema valoriale ben definito, che consente alle persone di far parte e di riconoscersi in quella data comunità. Si è parte di un gruppo perché ci si veste allo stesso modo, si agisce in linea di massima allo stesso modo, si mangia allo stesso modo e, soprattutto nello spazio pubblico, si agisce allo stesso modo.

Per converso, in città, si ha la sensazione di sentirsi più liberi, meno osservati, di potersi vestire come si vuole senza esser giudicati e ci si percepisce in una dimensione umana più distaccata. E ancora, in una grande città, si frequentano luoghi che generalmente frequenta il gruppo al quale si appartiene (il gruppo di amici e conoscenti), si frequentano alcuni locali anziché altri, perché, in città, la differenza tra quartieri e gruppi sociali è più marcata. Allora il bar dipende, il più delle volte, dalla tribù di cui si fa parte.

Nei paesi, molte volte il bar è uno, l’aperitivo o il caffè si prendono nello stesso posto, l’unico che c’è, e paradossalmente pur senza volerlo, ci si contamina tra diversi, per status sociale, per grado culturale, per tribù ipotetica.

In una grande città, generalmente ci sono più opportunità, in un paese meno. Nella prima, la città, i legami sono deboli, nei paesi, questi sono forti. Nello spazio urbano la rete di conoscenze è meno profonda, ma più estesa, in un paese, questa è meno estesa ma più profonda.

Dopo questo estremo concentrato di concetti sviluppati dai meridionalisti classici, fino alla sociologia, è ancora così? È realmente così? Quante di queste affermazioni sono concrete, reali, e quanto è il percepito? Sono ancora valide queste presunte o reali dicotomie tra spazio urbano e  paesi?

Fino a qualche decennio fa, grosso modo, fino agli anni Ottanta, le innovazioni o quanto meno le cose nuove – a dire il vero già da molto tempo prima – giungevano nei paesi di provincia attraverso le stesse persone che erano partite da queste realtà, che rientrando portavano come segno distintivo di un presunto o reale cambiamento. Era così quando un emigrante rientrava a Natale o d’estate. La prima cosa che faceva, era acquistare un abito nuovo, la macchina ultimo modello e dispensare ad amici e parenti regali e omaggi che portassero in queste piccole realtà chiuse in se stesse cose nuove. E allora, si dispensavano sigarette “buone”, cioccolate mai gustate prima, carta stagnola veramente resistente, e così via. Una carrellata di esempi, veri o percepiti. È stato così per tutti o no? L’emigrante che rientrava veniva percepito come portatore di novità, racconti nuovi, esperienze di vita del tutto inedite, o era percepito in maniera diversa?

Diciamo che fino agli anni Sessanta fu così. Da questo punto di vista, il cinema è una grande fonte per comprendere i processi sociali. Fino al 1960, ovvero, fino al momento in cui una svedese, Anita Ekberg, non fa il bagno nella Fontana di Trevi (La Dolce Vita, 1960), l’Italia si raccontava al mondo per ciò che era e soprattutto per quello che era nella provincia italiana. La straordinarietà del neorealismo fu tale, non solo perché le persone si riconoscevano in quello che i film narravano, bensì, perché in queste narrazioni era marcatamente presente la storia degli 8.000 campanili del Belpaese. Il pescivendolo siciliano, la domestica veneta, il bracciante della Bassa, fino al disoccupato napoletano, e potremmo continuare, erano sì dei cliché, nei quali tutto sommato ci si riconosceva. Dopo il 1960 tutto cambiò. Quattro anni prima, Marcinelle aveva segnato l’ultima pagina di cronaca narrativa di un popolo di straccioni che trovava l’unica soluzione nella tanto auspicata e decantata valvola di sfogo che affascinò molti dei meridionalisti classici, da Guido Dorso a Manlio Rossi-Doria, e non solo. Tanto che Rossi-Doria definì lo sfollamento delle campagne come processo necessario e liberatore. Eppure, già qualche anno prima, esattamente un anno dopo il famoso bagno nella fontana di Trevi, Totòtruffa 62 (1961) narrava la figura dell’emigrante come l’ingenuo di provincia che aveva fatto fortuna che rientrava in un paese cambiato del tutto. La figura dell’emigrante non era più quella della sofferenza, bensì colui che conservava un antico retaggio che non esisteva più, in un paese che raccontava a se stesso e al mondo come fosse ormai divenuto una superpotenza mondiale. Tuttavia, esattamente due anni dopo, nel 1963, con il suo film d’esordio I basilischi, Lina Wertmüller narra la storia di un qualsiasi paese dell’entroterra in cui sono ancora fortemente presenti le dicotomie tra classi sociali, dove si fatica addirittura a costituire una cooperativa per commercializzare il salamino del posto, e dove la grande città, in questo caso Roma, rappresenta un mondo talmente lontano, quasi inimmaginabile.

A questo punto ci sorge spontanea la domanda: dove, quando e perché accade questo cortocircuito narrativo?

L’esempio del cinema ci aiuta, ma da solo non basta. Ci aiuta a identificare il momento nel quale si smette di raccontare, tranne qualche raro caso, la provincia italiana, e l’arretratezza o la povertà come canone narrativo sono identificate solo nel Mezzogiorno del paese. Paradossalmente, questo momento rappresenta il punto di frattura decisivo tra spazio urbano e aree interna, tra città e paesi. Eppure, ancora negli anni Sessanta e fino alla metà del decennio successivo, l’entroterra veneto o i paesi di montagna del Piemonte continuano a svuotarsi, alla pari del Salento e dell’entroterra appenninico. Eppure, questo elemento scompare dalla narrazione nazionale, che vede nella dicotomia Nord e Sud l’unico grande tema, come se i Nord ed i Sud fossero tutti uguali. Ma ritorniamo agli anni Ottanta.

Probabilmente, per individuare il punto di partenza per una nuova narrazione dei paesi, il decennio della Milano da bere, del rampantismo e dei paninari, ci aiuterebbe a riannodare i fili di questa narrazione. Improvvisamente, dopo il decennio dell’impegno sociale, della tragedia del terrorismo, le italiane e gli italiani hanno voglia di spensieratezza. Le radio e le tv commerciali fanno il resto. A certo punto, non conta più da dove vieni, dove vivi, lo status sociale o la tribù, a contare è come ti vesti e lo stile di vita che assumi. Inizia un modello performante che spazza via lentamente un mondo che sembrava diverso. Il decennio successivo inizia a diffondersi la rete e agli inizi del nuovo millennio nascono i social network, che completano il lavoro. Improvvisamente, che ci si trovi in un minuscolo paese di montagna o in una delle principali strade di una qualsiasi grande città o metropoli del mondo, si comunica allo stesso modo. Tutti potenzialmente possono usufruire degli stessi canoni narrativi, delle stesse tipologie d’apparenza. L’Urban Style diventa il brand per tutti. A distanza di un trentennio, quello che in parte nacque con la stagione dei paninari, trova la sua consacrazione definitiva. Tuttavia, ogni volta disconnesso dal social, chi vive nella grande città resta nella città, mentre chi vive nel paese continua a restare nella struttura del paese, ma almeno ha potuto godere per un momento di un inebriante déjà-vu.

D’altronde, come dar torto a Ennio Flaiano quando sulle colonne dell’Espresso (28 giugno 1970) sostenne: «Fra 30 anni l’Italia sarà non come l’avranno fatta i governi, come l’avrà fatta la televisione». Fra 30 anni, i paesi dell’entroterra saranno come li avranno pensati i governi o come li avranno preformati i social network?

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Credits Foto originale : Luke Tarbuck da Pixabay

Toni Ricciardi
Storico delle migrazioni e delle catastrofi – Université de Genève
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