Qualità delle produzioni. Quando a garantire è la montagna
di Roberto Rubino
Appartengo alla generazione che appena si iscrisse all’Università si trovò a fare i conti con il ’68. Ero alla Facoltà di Agraria di Portici, dove i rumors della rivolta arrivarono attenuati non solo perché la sede era distante da Napoli e con pochi iscritti ma anche perché a quel tempo noi parlavamo non tanto di politica quanto di Mezzogiorno e di modelli di sviluppo. Da poco era andato via da Portici Rossi Doria ma, tutti conoscevano le sue idee e il famoso “osso e polpa”.
Si parlava già di aree interne, di marginalità, di lotte contadine e Rocco Scotellaro sembrava che ancora circolasse fra le strade di Portici. Il boom economico era al centro del dibattito nazionale, ma al Sud c’era la quesitone meridionale, lo sfasciume geologico di Giustino Fortunato, le aree depresse, i Sassi di Matera, il modello di sviluppo. All’Università ci insegnavano che il futuro era nell’innovazione e nell’importazione di modelli dall’esterno, perché quelli esistenti non producevano a sufficienza.
La stessa Cassa del Mezzogiorno, nel Piano Carne che lanciò per accelerare i processi di sviluppo, impose che i riproduttori delle razze anche autoctone dovessero venire dall’estero. Quando poi nel 1978 vinsi il concorso dell’Istituto Sperimentale per la Zootecnia, fui assegnato a Potenza e già da subito il direttore Alessandro Carena, torinese portato a Potenza da Colombo, mi disse che non era vero che il Mezzogiorno non avesse risorse, anzi specificò che il potenziale di risorse era elevato e che stava a noi individuarle, misurarle e valorizzarle.
Ecco, il segreto, il metodo stava tutto in quel “misurare” le risorse. In quegli anni in Italia, ma vorrei dire in tutto il mondo industrializzato, la scelta era caduta sulla quantità ad ogni costo, sul produttivismo. La parola d’ordine era: produrre di più a costi sempre più bassi. Un esempio paradigmatico può essere quello dei pascoli. Grazie all’intuito di Carena, avevamo, nell’azienda Li Foy di Potenza, delle cotiche erbose di grande livello. Ma se utilizzavamo l’unità di misura della quantità, la produzione di erba per ettaro, quel pascolo produceva appena 35q di fieno, contro i 300-400 della pianura. Però già allora Carena aggiunse, alla produzione per ettaro, il numero di piante per metro quadrato, che erano oltre 4000, una barriera incredibile contro le frane e uno strumento per recuperare la fertilità dei suoli. Ma i tempi non erano maturi, il sistema ed i finanziamenti spingevano verso l’aumento di produzione e noi non riuscivamo ad individuare unità di misura in grado di fornirci una idea del livello qualitativo delle nostre produzioni. Non erano i soldi che mancavano, mancavano le conoscenze ed attrezzature di laboratorio che permettessero di individuare nuovi parametri.
Negli anni Ottanta incomincia ad affermarsi uno strumento che era stato messo a punto dallo scienziato inglese James Lovelock per le prime spedizioni sulla luna: il gascromatografo, che permetteva di analizzare l’aria e le sue componenti. Nel nostro caso le molecole odorose. Si incominciò così a parlare di qualità e non di quantità. Il cibo, le materie prime hanno un odore e anche un gusto. Ma nel frattempo il modello intensivo mostrava i suoi limiti e il settore andava alla ricerca di nuovi modelli. Purtroppo, invece di studiare più a fondo i sistemi tradizionali, si preferì cercare modelli alternativi. E così hanno fatto clamore e sono poi scomparsi l’allevamento delle lumache, dei visoni, dello struzzo, dell’asino. Poi ci siamo inventati le razze o le varietà: i grani antichi, le razze bovine, ovine e caprine, il maiale nero.
Quest’ultima opzione poteva essere ed è anche l’occasione per far ritornare al proprio posto piante ed animali che hanno assunto certe caratteristiche grazie ad un adattamento millenario a quello specifico ambiente. Un inno alla biodiversità, ma guai a parlare di superiorità di un cibo prodotto da una razza piuttosto che da un’altra, perché in quel caso non vi sarebbe alcuna argomentazione scientifica per giustificare una tale affermazione. Nel frattempo, gli studi vanno avanti e si arriva al gusto ed alle molecole che ne sono responsabili. Quest’ultimo aspetto non è stato ancora studiato a fondo ma le conoscenze sono tali per cui si può ipotizzare che il livello qualitativo di una materia prima o di un prodotto trasformato si misura attraverso le molecole volatili, responsabili dell’aroma e di quelle fisse responsabili del gusto e che il flavour (l’insieme di aroma e gusto) dipende dal sistema di produzione. In pratica, poiché in natura c’è una relazione negativa fra quantità e qualità, all’aumentare della quantità c’è una diluizione della qualità.
Quindi, quei pascoli di Li Foy, se io li giudico in base alla quantità, risultano scadenti e sono da sostituire con erbai che producono 10 volte di più, che è poi quello che è successo in tutta Italia; se invece prendo atto che, proprio grazie a quelle erbe che sono nei pascoli, alle 4000 piante per metro quadrato, ognuna delle quali apporta molecole diverse che arricchiscono l’aroma e il gusto del latte ed il formaggio, oltre a far stare meglio l’animale perché in questo modo ha una dieta completa, il latte ha una complessità incredibile e che è proprio quel pascolo che mi permette di avere un grande formaggio, senza impattare sull’ambiente con diserbanti, concimi e lavorazioni, allora si capisce che aveva ragione Carena: abbiamo grandi risorse, oggi sappiamo come misurarle e dobbiamo solo valorizzarle. E lo stesso vale per tutte le altre produzioni vegetali.
La collina e la montagna per antonomasia non posso essere coltivate intensivamente e, quindi, la gran parte delle materie prime hanno un livello qualitativo elevato.
A questo punto serve solo la maieutica di Socrate: tirarle fuori e farle conoscere.
Stesso fenomeno, visto con un approccio diverso e misurato con un metodo diverso, può portare a soluzioni e a modelli di sviluppo diversi. In fondo è un po’ la storia dei Sassi di Matera: erano la vergogna di quel tempo, ora i migliori alberghi offrono stanze molto originali nelle grotte scavate nel tufo. Purtroppo, abbiamo impiegato cinquant’anni per capirlo ma, come diceva Lucrezio: natura non facit saltus. Almeno ora lo sappiamo e speriamo di non perdere questa occasione.
Credits foto. Monte Li Foy ph Raffaele Martino –