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Civiltà Appennino

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La fine del mondo

di Raffaele Nigro

 

Sono passati quarant’anni da quel terribile terremoto che sconquassò Basilicata e Campania con un numero imprecisato di morti. Ero a Bari quando sentii i muri dell’appartamento al terzo piano traballare e la mia sedia allontanarsi dalla scrivania e adagiarsi contro il muro. Scesi le scale con terrore, seguito da mia moglie e da alcuni amici che erano venuti a farmi visita. Telefonai subito a Melfi, i miei non rispondevano, perché, seppi più tardi, erano fuggiti in strada. Allora chiamai Mario Trufelli, era in redazione e mi ragguagliò: nell’area del Vulture non c’era stato un sommovimento feroce come si era registrato tra Balvano, Potenza e l’Irpinia. Stessi dunque tranquillo.

Al mattino, intorno alle cinque sentii squillare il telefono, mi convocavano in Rai, bisognava partire immediatamente per Pescopagano con mezzi pesanti e troupe. Ricordo che realizzammo un’autocolonna di tre quattro automobili, un fuoristrada, il pullman tricamere e il camion dei generatori di energia.

Gli effetti del terremoto cominciammo a vederli a metà della strada Ofantina. L’asfalto era stato tagliato da crepe spesse dieci venti centimetri. E man mano che si procedeva vedevamo i casolari di campagna crollati per effetto del sommovimento. I cani abbaiavano. Entrammo in Pescopagano annunciati dal disastro e ricordo che ci accampammo in una piazza circondata da muri diroccati, alti, sfinestrati e privi di tetto. Sulla nostra sinistra una torretta culminava con un grande orologio le cui lancette erano ferme mi pare a pochi minuti dalle venti. Segnavano il momento del maggiore sconquasso. Attorno a noi si assembrava la gente, ci chiedevano notizie, molte donne piangevano, altri si addentravano tra le strade strette del centro, incuranti dei pericoli di crollo, tornavano con feriti e morti.

Cominciammo a dare notizie ai telegiornali e sputavamo immagini di disperazione e di distruzione. Ma l’idea che circolava era che Pescopagano fosse stato l’epicentro del disastro. Verso sera arrivarono in auto due ragazze, intervistate dissero che erano fuggite da Laviano, dove c’erano molti morti. L’epicentro si spostava dunque.

Ci aveva seguito Teresa, una segretaria di direzione, era originaria di Lioni. Una troupe partì verso la città irpina e diede un passaggio a Teresa. Io ero impegnato con le dirette dei telegiornali e non potetti muovermi. La notte la trascorremmo nelle macchine, attardandoci dapprima tra i vicoli sgarrupati e provando con incoscienza a scavare con le mani nei cumuli di macere, laddove sentivamo lamenti. Fui molto felice quando riuscimmo a liberare una donna semisepolta sotto alcune travi. Poi salvammo un cane lupo e altre donne, due vecchietti e alcuni bambini. Ci facevamo strada con le mani e con qualche arnese trovato sul posto, nelle case travolte dal cataclisma. Eravamo stati i primi a giungere sul posto e ci chiedevamo perché non fosse ancora arrivato qualche contingente di soccorso. Capimmo più tardi che a Roma non avevano idea né di ciò che fosse accaduto, né dell’area interessata.

La notte passò nel dormiveglia ma al mattino, abbastanza presto, decidemmo di andare alla scoperta del territorio. L’auto attraversò Sant’Andrea di Conza e quasi a metà di un corso ci crollò addosso un muro intero di calcine e canne. L’autista accelerò nel fuggi fuggi generale e tra gli urli seguiti a quella serie di scosse di assestamento. Scendemmo a valle e poi ci inerpicammo lungo il Belvedere del Belgio, un lungo viadotto che portava alla periferia di Conza. A un tratto i carabinieri ci fermarono, non si poteva procedere perché la strada era attraversata da crepe spaventose. Ci toccò salire a piedi e addentrarci in un mondo raccapricciante. Sui margini della strada erano assiepati molti cadaveri. Incipriati dalle calcine, bianchi e come dormienti. Fui preso da sconforto e da pietà indicibile, perché pensavo a quella tragedia che veniva ad aggiungersi all’infelicità che la miseria stringeva quei popoli. Lo stesso Belvedere richiamava nel nome il sacrificio degli emigrati che avevano inviato denari alle famiglie lontane. Non c’era anima viva e solo un giovane, dirimpetto alla cattedrale che era venuta giù e che mostrava dei santi rifugiati nelle nicchie scoperchiate sembravano volerci comunicare che non erano stati in grado di compiere miracoli neppure per se stessi. Una vecchietta veniva aiutata da un paio di carabinieri ad affiorare da un buco in un muro. E il giovane era saltato in una casa sottostante il piano stradale, priva di tetto e scavava con le mani alla ricerca di fotografie e di oggetti cari. Ma ciò che mi spaventava era che alcuni palazzi di recente costruzione non avevano retto all’urto. Si vedevano i morti nelle stanze spalancate, come nella quinta di un teatro degli orrori. I muri erano crollati sulle case sottostanti e le avevano travolte e costrette a ripiegarsi su altre case sottostanti.

Da Conza scendemmo verso Teora. Qui un lungo viale mostrava le cannicciate dei tetti. Entrammo nella chiesa e c’erano diecine di morti assiepati sui pavimenti. Ma quando raggiungemmo il campo sportivo non ce la feci a trattenere il pianto. Non so quanti corpi aspettavano che qualcuno li sistemasse nelle bare o li calasse in un solco collettivo.

Aspettavamo che arrivassero aiuti, ma aiuti non venivano. Ricordo che la radio dava notizie strampalate, da Roma si cercava ancora l’epicentro e man mano che si susseguivano le notizie insieme alle nostre precisazioni ecco che le coordinate mutavano. I morti crescevano a dismisura, si annunciava l’arrivo di un’autocolonna di militari, e l’epicentro passava da Conza a Lioni e poi a Calabritto. La verità era che nessuno sapeva quale fosse l’entità e il sisma si era allargato in maniera spaventosa e offendeva tutto il Sannio, l’Irpinia e la Basilicata, fino alla parte più alta del Subappennino.

Poi tornò la troupe che era partita per Lioni. Ci dissero che Teresa aveva rivisto suo padre, ma non più sua madre morta con la casa crollata. Allora il terremoto si fece più vivo e concreto, perché una nostra conoscente era stata toccata nella carne.

La sera tornammo a dormire nella piazza di Pescopagano. A un tratto vidi due figure che mi erano care, mio zio Peppino e mio padre. Erano saliti a rassicurarsi del mio stato di salute. Spiegai che dormivamo in macchina, descrissi il grande cerchio del sisma, il possibile baricentro. Dissero che da noi, a Melfi, non c’era stato quel finimondo. Se ne andarono tranquillizzati.

Il giorno successivo cominciò a piovere sulle macerie e sui capannelli di sfrattati. Ma arrivarono anche i militari. Con un ritardo spaventoso. Al comandante del convoglio che raggiunse la valle di Conza spiegammo che occorreva addentrarsi verso il Sannio, ma che ancora molti potevano essere salvati anche a Conza. Sentivamo tutti che avevamo subito una profonda sconfitta, una ferita profonda. Ci dissero che a Balvano erano morti un’infinità di bambini nel crollo della cattedrale. Io ero sporco di fango e di calcina e osservavo quel paese devastato, come fosse stata la fine del mondo.

Raffaele Nigro
Giornalista e narratore, ha pubblicato nel 1987 I fuochi del Basento, con cui ha vinto il premio Campiello. In collaborazione con Fondazione Appennino, è autore con Giuseppe Lupo del primo volume Civiltà Appennino. L’Italia verticale tra identità e rappresentazioni, Donzelli Editore (gennaio 2020) ed insieme ad altri autori del secondo volume della serie Civiltà Appennino Le vie dell’acqua, (Donzelli Editore, ottobre 2020). Collabora con il web magazine www.civiltaappennino.it.
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