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Undertourism. Slow e cultura nel turismo post-Covid

Quale futuro per il turismo italiano? Dal turismo collaborativo a un nuovo modello di esperienza turistica nello scenario post Covid.

di Carla Lunghi


 

Nel marzo 2020, a seguito della rapida diffusione nel mondo del virus SARS-CoV2, il turismo internazionale si è sostanzialmente fermato con pesanti impatti sulle economie di molti paesi, fra i quali l’Italia in cui tale settore ha un peso pari a circa un 13% del Pil nazionale.

La pandemia da COVID-19 ha costituito (e costituisce) una sfida di grande portata per un ambito che coinvolge un’ampia serie di attività, da quelle più tradizionali ad altre maggiormente innovative come le recenti esperienze legate alla sharing economy.

In particolare, negli ultimi anni, proprio il successo del turismo collaborativo (per intenderci: quelle forme di mobilità, di ospitalità e di fruizione di un luogo rese accessibili e intermediate solo dalle piattaforme del web 2.0) con l’offerta di una maggiore socialità, autenticità ed esperienzialità, aveva già innescato, almeno a livello culturale, una riflessione sul senso dell’esperienza turistica e posto la necessità di avviare una rifondazione ecologica del turismo stesso.

Ciò che la sharing economy aveva già trasformato è stato lo stesso modello turistico: tradizionalmente l’attrattività di una destinazione veniva definita da una serie di caratteristiche “oggettive” della meta in sé – quali monumenti, patrimoni museali, bellezze naturali, usi folcloristici – aspetti che determinavano poi, in via subordinata, anche lo sviluppo di attività collaterali nella ristorazione, nelle strutture ricettive, nei trasporti, ecc. Tuttavia, tale paradigma sembrava essere ormai definitivamente tramontato anche in un paese come l’Italia, in cui l’eccezionale patrimonio non è più in grado – da solo e senza alcuna innovazione – di rispondere alle nuove esigenze dei viaggiatori, non più passivi recettori di proposte preconfezionate ma attivi ricercatori e creatori di esperienze.

Nelle forme collaborative, infatti, le stesse piattaforme riescono a rendere interessanti una meta o un territorio nella misura in cui consentono un’esperienza diversa delle persone e dei luoghi visitati; permettono, in altre parole, forme di turismo relazionale in cui la riscoperta della bellezza e dell’unicità dei patrimoni storici, artistici, folcloristici, enogastronomici – e in generale dell’umanità – avviene in contesti interpersonali e familiari.

Non sorprende, dunque, che in questo momento di incertezza e di sospensione della normalità, proprio queste dimensioni esperienziali e relazionali siano state le più ricercate nei mesi immediatamente successivi al lockdown primaverile, che aveva registrato una grande mobilitazione virtuale da parte degli operatori del settore per rendere accessibili paesi e paesaggi, città e luoghi d’arte e mantenere vivo il desiderio di viaggiare.

Oggi però, ci troviamo di fronte a domande più radicali che vanno a interpellare il senso profondo dell’esperienza turistica nella misura in cui, in questo clima di perdurante emergenza sanitaria, ci si chiede come e, soprattutto perché, tornare a muoversi e a esplorare.

Una prima risposta è intravedibile nel successo degli spostamenti a basso impatto ambientale – a piedi, in bicicletta o in barca a vela – che hanno registrato una crescita esponenziale (per il solo cicloturismo viene calcolato un fatturato sui sette miliardi di euro all’anno), uno stile di movimento che coniuga i vantaggi di svolgersi prevalentemente all’aria aperta e in piccoli gruppi con le necessarie condizioni di sicurezza sanitaria.

Questo stile slow ha portato alla riscoperta di centri secondari- delle piccole borgate e delle campagne spesso non lontane da casa, ricche di storia, natura e cultura – rivitalizzando territori e generando un’economia diffusa fatta di produttori locali e di piccole strutture ricettive. Si tratta spesso di attività ristrette, perlopiù cooperativistiche, che occupano pochi lavoratori ma che rappresentano una fittissima rete minore che oggi, più che in passato, alimenta il bello dell’Italia e la nostra economia.

Questa mobilità dolce sembra far intravedere un superamento delle esperienze frenetiche dell’overtourism, delle mete usa e getta, aprendo prospettive di undertourism nella misura in cui si diffondono esigenze di fruizione diversa non solo dei centri fuori dai grandi circuiti ma anche dei luoghi più noti, da godere in momenti fuori stagione, con maggior tempo e calma.

Una seconda risposta va nella direzione di riscoprire e rafforzare un turismo che abbracci i temi della cultura, dell’educazione e della conoscenza. L’Italia è immensamente ricca anche a questi livelli: ha istituzioni formative d’eccellenza in molte regioni, comparti produttivi creativi all’avanguardia (come la moda e il design), situazioni che attraggono studenti, ricercatori e imprenditori da tutto il mondo. Una realtà composita che potrebbe diventare un volano importante nello scenario post- Covid ampliando quelle che fino ad oggi sono state pratiche ristrette. Fare del viaggio un’occasione di arricchimento e di trasformazione personale e professionale: il nostro paese ha tutte le carte in regola per giocare questo ruolo mettendo in atto una seria programmazione e investimenti importanti.

Emerge in definitiva un’idea di turismo che abbandoni per sempre l’idea della rendita e si muova nell’alveo dell’innovazione e dell’investimento: il turismo del futuro sembra partire proprio da queste ultime due dimensioni sia nella direzione slow sia in quella legata all’economia della conoscenza.


Credits photo: Opera di Jean Fabre – Foto di Mathieu Militis da Pixabay

Carla Lunghi
professoressa associata di Sociologia dei processi culturali, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano – carla.lunghi@unicatt.it
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