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Civiltà Appennino

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Oltre la minorità. La natura performativa dei diritti di paesanza

“Così i paesi, da luoghi centrali per la storia italiana, si stavano velocemente trasformando in periferie sociali ed economiche: il Paese con la P maiuscola stava marginalizzando i paesi con la p minuscola il che, in sostanza, significava rinnegare la radice fortemente policentrica di una neonata Repubblica.”

di Nicholas Tomeo


 

Sono più di settant’anni che i padri e le madri costituenti insegnano all’Italia repubblicana che per fare della nostra democrazia un fatto sostanzialmente applicabile, c’è il concreto bisogno di rendere i cittadini capaci di partecipare alla vita e all’organizzazione economica, sociale e politica del Paese; eppure, di quel dettato costituzionale sancito dall’art. 3, il processo di effettivo compimento sembra essere ancora lungo dal concretizzarsi. Basti infatti volgere lo sguardo verso le campagne e le aree rurali non intensive e industriali, nonché verso le montagne e i paesi di questa rugosa Italia per rendersene conto e capire che esistono migliaia di territori che attendono ancora di entrare a far parte di quel processo di costruzione di un’Italia repubblicana che tuttora restituisce un’immagine di sé incompiuta ma, soprattutto, disuguale e disparitaria. L’Italia repubblicana nasceva sulle macerie di un conflitto mondiale che aveva ulteriormente impoverito le classi povere e meno abbienti, ma le spinte liberiste, dovute all’inserimento dell’Italia e dell’Europa occidentale nel blocco atlantico, riuscirono ad imporre l’applicazione di politiche pubbliche a favore della redditività privata, industriale e finanziaria; processo, questo, che invece di ridurre i divari li ha ulteriormente divaricati. Industrializzazione e urbanizzazione delle pianure, dei territori di valle e di qualche tratto di costa trasformarono rapidamente un’Italia che si sforzava di riconoscersi non più rurale e paesana, ma industriale e cittadina, come a scrollarsi di dosso un peso ingombrante ma evidentemente innegabile. Quei decenni di forte sviluppo industriale e urbanistico che tra gli anni 50 e 60 del XX secolo ha profondamente trasformato le dinamiche economiche e sociali italiane, è passato alla storia come età dell’oro o miracolo economico, ma se si assumono le vesti di quel vasto “mondo dei vinti”, la domanda che verrebbe subito da porsi sarebbe: miracolo economico sì, ma per chi?

Tra gli anni 50 e 60 del 900 l’Italia ha conosciuto i livelli di crescita economica più alti di sempre, per via di livelli di produzione industriale tra le più alte al mondo. Se nel 1951 i lavoratori addetti all’agricoltura erano poco al di sopra degli 8,2 milioni, sul finire degli anni 60 erano scesi a circa 4 milioni; nel frattempo, i lavoratori dell’industria e delle costruzioni che nel 1951 si aggiravano sui 5,8 milioni, vent’anni dopo superavano gli 8 milioni e, nel 1958, per la prima volta i lavoratori dell’industria superarono gli addetti all’agricoltura. La crescita delle città e l’imporsi dell’industria di stampo fordista – che nelle aree rurali si è tradotta in una pressante meccanizzazione delle campagne di pianura della media e grande proprietà ad alta redditività – ebbe come inevitabile conseguenza l’esodo rurale e l’abbandono delle campagne a basso reddito, come quelle situate sulle alte colline e sulle montagne. Negli stessi anni, lo spostamento di persone dalle aree rurali a redditività marginale alle città è stato un fenomeno che ha coinvolto l’intero Paese, sebbene l’emigrazione dal Mezzogiorno verso il Nord abbia assunto connotati dai numeri enormi (dal 1955 al 1975 hanno infatti lasciato il Sud per trasferirsi al Nord più di 2 milioni di persone, prevalentemente provenienti da aree rurali, spinti dalla necessità di redditi e condizioni di vita migliori. Ma sarà stato così?).

In ogni caso la popolazione urbana cresceva tanto al Nord quanto al Sud: Palermo tra il 51 e il 71 cresceva di oltre 150 mila abitanti, Bari poco meno di 200 mila, Napoli aumentava la sua popolazione del 20%; Cagliari nel 71 aveva quasi raddoppiato la sua una popolazione rispetto al 51, mentre Pescara che nel 1951 contava circa 65 mila abitanti, nel 1971 registrava addirittura una popolazione di oltre 122 mila e Roma, in soli vent’anni, registrava oltre un milione di nuovi residenti. Al Nord la situazione non era dissimile, con Milano che nel ventennio 1951-1971 ha attirato circa 500 mila nuovi abitanti, Genova poco meno di 200 mila, mentre Torino è passata da poco più di 700 mila abitanti a oltre un milione. Nel frattempo che i paesi si spopolavano e le persone scendevano a valle per trasferirsi nelle città e nelle aree di pianura, non si perdevano solo abitanti e non si disgregavano solo famiglie e comunità locali, ma si stava trasformando l’idea stessa dell’abitare i territori.

Così i paesi, da luoghi centrali per la storia italiana, si stavano velocemente trasformando in periferie sociali ed economiche: il Paese con la P maiuscola stava marginalizzando i paesi con la p minuscola il che, in sostanza, significava rinnegare la radice fortemente policentrica di una neonata Repubblica.

Ridurre il fenomeno dello spopolamento dei paesi e di quelle che oggi conosciamo come aree interne alla sola dimensione della grande città o della metropoli, non permetterebbe di inquadrare la vastità del processo di inurbamento. Sono infatti più di 5 milioni le persone che dal 51 al 71 si trasferiscono nelle medie città di provincia – a cui si sommano gli oltre 3,5 milioni verso le città con oltre 250 mila abitanti – lasciando i piccoli paesi di origine: è l’imposizione, questo, non soltanto del modello urbanicentrico, ma della cultura metrofila secondo cui a dominare non è tanto la grandezza della città, ma l’idea stessa di città e la sua autocelebrativa narrazione.

In ogni caso, oltre ad una narrazione che ancora oggi fa della città la quintessenza della civiltà e di tutto il resto un residuo rimasto fuori dal corso della storia o, addirittura, una non-città, le efficientiste e sviluppiste politiche pubbliche che dal dopoguerra ad oggi hanno concentrato risorse, opportunità e servizi in pochi centri a discapito di più del 60% del territorio italiano e oltre il 50% dei Comuni, ossia a svantaggio di quella maggioritaria parte del territorio che oggi viene chiamata area interna, hanno messo ai margini del quotidiano accesso ai diritti di cittadinanza più di 13 milioni di persone.

È così necessario rivendicare il diritto ad abitare i paesi garantendo servizi, dunque diritti e opportunità, nei luoghi: è infatti solo attraverso l’estensione dei servizi essenziali costituzionalmente riconosciuti che si rende un territorio accessibile e abitabile. Vanno, in buona sostanza, rivendicati i diritti di paesanza, ossia il diritto a vivere e abitare il paese, ovvero il diritto di restarvici, farvi ritorno o lasciarlo; diritti che possono essere garantiti solo attraverso il quotidiano esercizio di quei diritti di cittadinanza previsti dalla carta costituzionale, praticando, però, un altro modello di spazio e territorio rispetto a quello liberista urbanocentrico.

In tal senso, la natura performativa dei diritti di paesanza poggia su una doppia rivendicazione – che non si pone in alcun modo in antitesi rispetto all’idea di cittadinanza ma, anzi, arricchisce e rende ancora più forte la rivendicazione dei diritti di cittadinanza –, tanto politica quanto culturale, ma sempre emancipatoria. La rivendicazione politica agisce proprio sui diritti: i diritti di cittadinanza non si esauriscono nel mero riconoscimento formale, ma nell’applicazione sostanziale dei diritti stessi attraverso una capillare diffusione dei servizi essenziali di base.

Basta, però, parlare di servizi? No, perché i servizi sono diritti e i diritti, per essere tali, devono potere essere accessibili: se un servizio essenziale resta a pagamento, il servizio c’è, ma manca il diritto. È, questa, la differenza tra diritto e privilegio. Prendiamo l’evidente e comune situazione del trasporto in ambulanza fuori dai casi di emergenza: se il trasporto in ambulanza per una visita specialistica nell’ospedale di valle il servizio è affidato esclusivamente alle società private a pagamento, il servizio c’è, ma non il diritto per chi, ad esempio, non può permettersi il pagamento del trasporto. La rivendicazione culturale, invece, poggia su un riscatto dell’essere paesi tramite la riconquista di un valore (anche) positivo dell’abitarli.

Ciò significa uscire da una condizione di subalternità e minorità rispetto alle aree urbane, facendo leva sulle possibilità che i paesi offrono alle persone in termini di sperimentazione di modelli che scaturiscano da un’altra idea di sviluppo dei luoghi rispetto a quella competitiva, sviluppista ed efficientista; modelli, cioè, cooperativi, partecipati, includenti, basati sulla tutela dei beni comuni per la produzione di economie locali capaci di uscire fuori dai confini amministrativi e dai limiti tanto concettuali quanto temporali.

I paesi, dunque, visti anche come luoghi produttivi di cultura, economie, modernità e innovazione, capaci di creare fondamentali connessioni e relazioni con l’esterno, e non come fucine di fissità e arretratezza, utili solo ad una gita fuori porta. Si pensi così alle cooperative di comunità di cui gli Appennini rappresentano luoghi di alta produzione, si pensi alla capacità di produrre (retro)innovazione attraverso l’agricoltura multifunzionale e alla centralità che i paesi possono ricoprire in questo ambito. Si pensi ad esempio alle cooperative di comunità I briganti del Cerreto a Cerreto Alpi e ai servizi forestali, ambientali e turistici offerti o alla Fer-menti Leontine di San Leo che ha riaperto il forno e la bottega di comunità; si pensi alla tutela dei beni comuni attraverso l’azienda agricola multifunzionale di Troina, si pensi alla Scuola di “O” di Ostana per bambini e bambine da 1 a 3 anni che applica i principi dell’outdoor education, si pensi alla formazione offerta dalla Scuola dei Piccoli Comuni di Castiglione Messer Marino. E di esempi se ne potrebbero citare a decine.

Rivendicare i diritti di paesanza significa, così, anche uscire dalla narrazione della salvezza e dell’eroismo individualista: non c’è niente e nessuno da salvare, ma solo la necessità di ripartire da ciò che c’è e dalla capacitazione dei paesi e delle comunità locali attraverso la messa in pratica di politiche pubbliche che guardino ai luoghi attraverso le istanze locali, fuori da approcci aziendalisti che hanno trasformato le persone in utenza, i bisogni in efficienza e le economie in profitti. Questo, però, lo si può fare solo attraverso la creazione di reti e alleanze, facendo incontrare le idee e i progetti che nascono dal basso con gli strumenti istituzionali: non bastano, invero, solo le pratiche cosiddette bottom-up, perché sarebbero prive di strumenti politico-istituzionali fondamentali, ma risulta di altrettanta fondamentale importanza che le politiche istituzionali ascoltino la base, ossia le complesse e composite comunità locali. Senza inoltre tralasciare l’importanza di non rimanere rinchiusi in campanilismi respingenti ma accogliendo le giuste competenze ed i validi saperi esogeni, assumendo dunque come proprie anche le competenze esterne dei nuovi abitanti e di chi ritorna, rendendo così i luoghi permeabili a nuove letture.

Nicholas Tomeo
Nicholas Tomeo, dottorando in Ecologia e territorio presso l'Università del Molise, si occupa prevalentemente di beni comuni, spazio pubblico e partecipazione, con un approccio che spazia dalla storia del territorio e dell'ambiente all'ecologia politica. È il curatore del Vocabolario delle aree interne. 100 parole per l'uguaglianza dei territori (Radici edizioni, 2024), ed è tra i fondatori della Scuola dei Piccoli Comuni di Castiglione Messer Marino.
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