Università e aree interne: un rapporto da ridefinire
L’Università potrebbe essere un motore per la rigenerazione delle regioni deboli del Paese se riuscisse a liberarsi dalle politiche dirigiste e dalle pastoie burocratiche dell’Anvur, la faraonica e autoreferenziale Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca; se fosse in grado di recuperare il senso autentico dell’autonomia e della libertà stabilite dall’articolo 33 della Costituzione Italiana. Ha fatto bene Gerardo Canfora, rettore dell’Università del Sannio, a richiamare su “Civiltà Appennino” l’urgenza di promuovere una revisione dei meccanismi di finanziamento delle Università, valorizzandone maggiormente la dimensione di bene comune di un territorio. Ma la CRUI – Conferenza dei rettori italiani – deve essere determinata nel chiedere una svolta radicale, che rompa definitivamente con un sistema ormai consolidato in cui la procedura è tutto e la sostanza è niente. Un sistema nel quale non solo la didattica e la ricerca hanno visto ridursi la libertà di insegnamento e del sapere, soggette come sono a schede cervellotiche e a valutazioni dall’alto, ma perfino la cosiddetta Terza missione (cioè l’insieme delle attività di interazione con la società civile e il territorio) è ormai imbrigliata in procedure che sottraggono tempo ed energie alla pratica effettiva del rapporto vitale coi territori.
In Italia c’è stata finora una scarsa considerazione del rapporto tra Università e territorio, tra piccola e grande dimensione, tra locale e globale. Si è affermata invece una tendenza all’aumento del dimensionamento e a una nuova centralizzazione del sistema, alla ricerca dell’eccellenza, che è il contrario dell’uguaglianza. Le implicazioni negative di tale tendenza, in aggiunta alla bassa percentuale delle risorse destinate alla formazione e alla ricerca scientifica, hanno finito per generare un sistema universitario italiano, rigido, burocratizzato, squilibrato e sempre meno accessibile a tanti giovani, soprattutto a quelli che hanno avuto in sorte di nascere e risiedere nelle aree interne del Paese.
Il sottofinanziamento dell’istituzione universitaria, unita all’imposizione di regole che trascurano il contesto in cui gli Atenei operano, costituisce oggi un duplice problema da affrontare urgentemente, se non vogliamo amplificare le disuguaglianze interne, che il Paese sta soffrendo in misura crescente. Il rilancio di un’intima e osmotica interrelazione tra istituzione universitaria e territorio costituisce un passaggio indispensabile per costruire un sistema formativo e di ricerca davvero efficiente e socialmente equilibrato, in grado di contribuire allo sviluppo culturale, sociale ed economico dei contesti regionali di riferimento. In tale prospettiva è necessario invertire la tendenza in atto e partire da un’adeguata considerazione del valore aggiunto che gli atenei che servono le cosiddette aree interne, indipendentemente dalla latitudine in cui si trovano, possono apportare all’equilibro sociale, alla coesione territoriale e alla capacità innovativa. Appare quindi necessario il superamento del modello che privilegia, mediante strumentali politiche di finanziamento, l’imposizione di regole di governance che non lasciano spazio alla sana autonomia gestionale e l’utilizzo spesso improprio di concetti come “merito” e “eccellenza”, la concentrazione delle strutture di didattica e di ricerca in pochi e affollatissimi poli o aree, non accessibili a tanti giovani, vuoi per ragioni geografiche, vuoi per il carovita e le condizioni socio-economiche delle famiglie degli studenti.
Così si mina il diritto allo studio e l’uguaglianza tra tutti i cittadini italiani; si concentrano le risorse nelle aree centrali penalizzando le regioni periferiche, anziché porsi l’obiettivo di sviluppare realmente il sistema universitario nazionale; si penalizzano drasticamente le università del Mezzogiorno e le discipline umanistiche che tanta importanza hanno nella formazione dei giovani.
Dal punto di vista di uno studente del Sud – poniamo della Calabria, della Basilicata o del Molise – che in questi ultimi decenni aveva visto aumentare la possibilità di studiare nelle sua regione e di mettere a frutto sul proprio territorio le competenze acquisite, ora l’orizzonte torna ad essere quello di una condanna a vivere in un contesto arretrato, con minori opportunità di accesso all’università, dovendosi accontentare di una formazione meno qualificata, ancorata ad una ricerca quasi inesistente, penalizzata dalla logica dell’eccellenza e del merito. A meno che non abbia il coraggio di andarsene via o la fortuna di essere nato in una famiglia abbastanza ricca da permettergli di studiare al Nord, magari a Trento, o ai Politecnici di Torino e Milano. Ma ecco che in questo caso torna evidente la discriminante economica e sociale, quella che un tempo si chiamava con chiarezza discriminazione di classe, la visione di una società diseguale che si esprime chiaramente nelle politiche governative.
L’esigenza di non disperdere un patrimonio prezioso per la produzione di uguaglianza e di coesione sociale, come quello rappresentato dalle tante università che operano al servizio di comunità e territori periferici, emerge anche sotto il profilo del plusvalore che le stesse possono apportare alla ricerca e allo sviluppo dell’innovazione. Sappiamo che l’orizzonte dell’Università è il mondo: formazione e ricerca sono guidate dal carattere universale del nostro lavoro e i nostri laureati e i nostri ricercatori dovranno sapersi muovere e operare alla scala globale. Tuttavia, ogni Università è sempre collocata in un contesto territoriale di cui tenere conto, come ambito al cui benessere contribuire e come laboratorio nel quale sperimentare analisi, letture, interpretazioni, modelli. Esiste un valore universale del locale, del territorio visto come oggetto e soggetto del sapere, ambito di convergenza di saperi esperti e contestuali, scientifici e umanistici, di discipline diverse e di sviluppo del pensiero critico. Si tratta di un plusvalore tipico, anche se non esclusivo, delle aree interne. Più si riesce ad essere presenti nella dimensione globale e più l’ancoraggio al locale (ben distinto dal localismo) e l’attenzione per i temi territoriali diventano elementi di forza, non di chiusura, ma di apertura. Più si riesce a sperimentare localmente, più si viene riconosciuti globalmente. L’obiettivo dovrebbe dunque essere quello di una ridefinizione del rapporto università/territorio e un riconoscimento, in termini normativi e di risorse, del valore della presenza universitaria nei diversi contesti regionali, in particolare quelli classificati come aree interne.
La presenza dell’Università in queste aree significative del Paese consente anche di evitare il costituirsi di invalicabili recinti accademici e/o disciplinari e di diffondere nella società l’idea di una Università vicina, visibile, trasparente, ma soprattutto utile. Permette altresì di instaurare relazioni istituzionali a rete e non polarizzate, il che aiuta a governare i processi di conflitto/integrazione tra istanze del territorio e mondo universitario. Il modello organizzativo si deve riflettere anche sui contenuti. Dobbiamo quindi assumere la questione delle aree interne, del paesaggio e del patrimonio culturale (in una visione che va dall’art. 9 della Costituzione, alla Convenzione europea del paesaggio e al Codice dei BBCC e del paesaggio) come uno degli assi prioritari di lavoro. È una riflessione che riguarda diversi contesti regionali italiani, che vedono nella “propria” università la fucina del loro futuro: nella fase di crisi strutturale del modello economico, è necessario tornare ad occuparci delle periferie; non più soltanto in un’ottica di resistenza alla marginalizzazione, ma nella prospettiva di una rinascita: andare alla ricerca di buone pratiche che indichino che qualcosa di nuovo e di migliore è possibile, magari con la possibilità di ricavare indicazioni paradigmatiche anche per il ri-orientamento dei modelli economici e dell’organizzazione sociale e territoriale a livello più generale. L’Università è, sia in relazione alle funzioni didattiche e di ricerca che a quella ineludibile di “terza missione”, un ambito privilegiato per costruire scenari partendo dalle vocazioni territoriali, dalle risorse e dalla sostenibilità del loro uso. Il che si traduce nella necessità di incidere sulla formazione del capitale umano e del capitale sociale. Formazione, fiducia e innovazione sono gli elementi attraverso i quali noi possiamo contribuire e rendere più solido il sistema economico nazionale, contrastando i divari regionali e alimentando processi di riterritorializzazione dello sviluppo e delle politiche. Ma è necessario che gli Atenei a base territoriale sappiano evolvere verso un ruolo più incisivo e sganciato da un sistema centralistico e burocratico che sta deprimendo i fondamentali valori di autonomia, di libertà e di creatività del sistema universitario.
Foto copertina di Sasin Tipchai da Pixabay