SNAI E PNRR, due approcci e diverse conseguenze
Non dimenticare le aree interne, una riflessione sullo stato delle politiche a loro destinate.
La recente presentazione a L’Aquila, presso la sede del Gran Sasso Science Institute (GSSI), del V Rapporto sui Comuni 2022 è stata l’occasione per fare il punto sulle politiche che nel nostro Paese, a vario titolo, vengono indirizzate alle aree interne, marginali e fragili. Il tema è sviluppato nella corposa terza parte del Rapporto, curato dall’Università di Venezia Ca’ Foscari su incarico della Fondazione IFEL, che accoglie analisi, valutazioni e proposte.
La riflessione sembra importante in un momento in cui entra nel vivo la fase di “messa a terra” del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), uno dei più importanti programmi di investimenti pubblici promosso dall’Europa nel secondo dopoguerra. Non solo: è in fase di avvio la stagione del nuovo ciclo di programmazione della politica di coesione (2021-2027), mentre consistenti risorse sono ancora da spendere a valere sul ciclo “in essere” che si chiude a dicembre 2023.
Secondo stime IFEL, sono circa 40 i miliardi di euro a disposizione dei Comuni fino al 2026 (anno di “chiusura” del PNRR), che salgono a 73 miliardi (fino al 2029) se si contano tutte le altre risorse appostate nei diversi strumenti finanziari della politica di coesione, vecchi e nuovi. Sono risorse utili per promuovere investimenti su tutte le materie di competenza dei governi locali: dalla scuola (compreso gli asili nido) alla mobilità (urbana ed extra urbana), dall’energia (efficientamento ed energie alternative) all’economia circolare (rifiuti), dalla digitalizzazione (potenziamento della rete internet) alla valorizzazione turistica e culturale, dalla salvaguardia del patrimonio naturale alle “aree interne”, per l’appunto.
Le “aree interne”, com’è ormai noto, sono i territori più distanti dai luoghi dove vengono erogati i principali servizi di cittadinanza legati alla salute (ospedali), all’istruzione (scuola), alla mobilità (trasporti e internet); in essi vi vivono circa 13 milioni di cittadini amministrati da 3.834 comuni (dato 2021), il 48,5% del totale, su un territorio che copre i 3\4 della superficie nazionale.
Una fetta importante di Italia che non solo è stata marginalizzata dalle politiche degli ultimi 40 anni, ma il cui tasso di spopolamento è triplo rispetto alla media nazionale, anche se detiene una disponibilità elevata di risorse ambientali (idriche, sistemi agricoli, foreste, paesaggi naturali e umani) e culturali (beni archeologici, insediamenti storici, abbazie, piccoli musei, centri di mestiere), certo utili per il benessere dell’intero Paese.
Come documenta efficacemente il Rapporto, il ritorno di interesse sulla questione territoriale da parte delle politiche pubbliche italiane ed europee negli ultimi decenni ha attraversato quattro fasi.
Una prima fase, a partire dai primi anni 2000, è caratterizzata dal (ri)emergere di temi che interrogano le aree rurali e le aree marginali, evidenziandone i problemi dell’abbandono e dello spopolamento di cui esse soffrono, ma anche i molti vantaggi in termini ambientali e paesaggistici di cui godono. In questa fase cominciano ad emergere i limiti di una politica territoriale fondata solo sulle economie di agglomerazione urbana.
Una seconda fase prende avvio dalla crisi del 2008 e fa emergere le gravi disparità tra le aree che hanno beneficiato della globalizzazione, perlopiù poli urbani, e le aree che ne sono state ulteriormente marginalizzate. In questa fase le aree marginali sono viste come un costo economico, da sostenere ma nei limiti stretti delle disponibilità fiscali dello Stato.
Una terza fase ha come momento iniziale e simbolico il voto sulla Brexit del 2016, con la massiccia reazione contro la globalizzazione espressa dal voto di protesta e dalla contestazione ai severi vincoli di bilancio imposte dalle politiche di austerità. In questa fase “i luoghi che non contano” sono visti come un costo politico, dove alto è il rischio di radicamento di derive antisistema e neo-autoritarie e dove dunque appare necessario agire non foss’altro per difendere la democrazia ed il “sistema”.
Un’ultima fase, è quella in cui stiamo vivendo, si caratterizza per i postumi della pandemia e per alcuni tratti (smartworking, riscoperta del valore degli spazi, ecc.) pare contribuire a cambiare il discorso pubblico sulle aree interne e marginali. Alla pandemia, peraltro, si è innestata la crisi climatica e la guerra che aggravano le condizioni di sostenibilità del modello di sviluppo basato sul paradigma urbano. In questa fase le aree interne se non hanno ancora assunto una centralità nelle politiche economiche, certamente sembrano entrate con più forza nella programmazione economica e finanziaria dell’EU e dei singoli Stati membri. La tendenza a cambiare “registro” è confortata dalle valutazioni di tanti climatologi i quali, indipendentemente dal ripetersi di future pandemie, sostengono che gli effetti del cambiamento climatico indurranno la ricerca di luoghi a vantaggio climatico dove vivere. Ad ogni modo è evidente a tutti la necessità di pensare ad un nuovo modello di relazioni collaborative fra città e aree interne\marginali. Dalla crisi si esce insieme.
In questo quadro, si collocano le diverse politiche sperimentate sulle aree interne a partire dal 2013. Il rapporto le analizza, offrendo spunti di riflessione e proposte. L’analisi parte dalla strategia nazionale per le aree interne (SNAI) per toccare questioni afferenti l’attuazione del PNRR nonché la programmazione delle nuove linee di intervento 2021-2027.
Tutti gli autori del rapporto concordano nel ritenere la SNAI come la prima politica pubblica che, dopo la grande crisi del 2008, abbia cercato di mettere al centro, anche con anticipo rispetto al corso degli eventi, le questioni di malfunzionamento della globalizzazione.
L’elemento distintivo di questa politica risiede nel fatto che essa sia stata dotata di una robusta teoria dell’azione oltreché di un impianto metodologico molto solido (place-based approach). Un metodo caratterizzato per il forte protagonismo dei Comuni (che agivano in forma associale quali “sistemi intercomunali permanenti”) e per una (altrettanto) forte azione di riequilibrio svolta dall’autorità nazionale, il Comitato nazionale aree interne (CTAI). Il quale, oltre ad assicurare contestualità fra interventi di miglioramento dei servizi (scuola, sanità, trasporti) e interventi di impulso allo sviluppo locale, ha potuto lavorare – almeno nella sua prima fase di operatività – al tentativo di “curvatura” delle grandi politiche settoriali alle esigenze delle “aree interne” (si pensi al caso del dimensionamento scolastico ai fini dell’assegnazione della dirigenza tarato su un numero di alunni non raggiungibile nelle aree spopolate). Che è condizione essenziale per far uscire definitivamente le politiche per le aree interne dalla logica della “compensazione” per farle entrare a pieno titolo nell’ordinarietà dell’intervento statuale.
Nel rapporto si ripercorre l’esperienza della SNAI illustrandone caratteristiche, primi esiti e possibili sviluppi nella programmazione futura.
Diversamente dalla SNAI, il PNRR non prevede una teoria d’azione sottostante ma ha scelto la via dei bandi competitivi quale criterio fondamentale per selezionare gli investimenti da realizzare sui territori. La scelta ha prodotto una mera distribuzione di risorse, senza considerare la specificità dell’aree in cui esse dovrebbero produrre ricadute. Peraltro, nelle misure che prevedono investimenti sulle “aree interne” l’allocazione delle risorse ha toccato un gran numero di comuni compresi nella mappatura sulla base di un riparto amministrativo delle stesse, senza alcun riferimento ad elementi strategici di programmazione locale né attenzione ad esigenze di gestione associata dei servizi finanziati.
Il rapporto analizza le diverse conseguenze dei due approcci adottati e prova a fare qualche considerazione generali sugli impatti che questi possono produrre sui temi del contrasto allo spopolamento e della chiusura dei divari territoriali. (segue)
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