“L’Italia verticale” di Raffaele Nigro
“Guardo la penisola con le spalle al Mediterraneo e gli occhi all’Europa. Ho di fronte un tentativo complicato di riunire gli Stati europei in una confederazione sempre più spaccata da vicende storiche diverse”. Comincia così il saggio “L’Italia verticale” che Raffaele Nigro ha scritto su Civiltà Appennino, il promo volume dell’omonima serieche ha dato vita alla produzione editoriale di Fondazione Appennino, in collaborazione con gli editori Donzelli e Rubbettino e a questa rivista online. Raffaele Nigro torna su questi temi e raffoza la sua visione di un’Italia che va guardata con occhi nuovi, con uno sguardo inverso. A partire dalla sua dorsale.
Su l’Avanti Online l’articolo che racconta anche l’esperienza di Fondazione Appennino e che qui rilanciamo.
Appennino: archeologia dell’Italia verticale
I numerosi terremoti che si stanno verificando nelle aree interne dell’Italia mi sembrano la metafora più calzante dei sommovimenti culturali e sociali cui è sottoposta la civiltà dell’Appennino.
Con disperazione abbiamo visto crollare le volte del duomo di Assisi, perdersi in frantumi gli affreschi di Giotto, la cattedrale dell’Aquila e il convento di san Francesco, sconquassarsi tutta Conza e Balvano.
Sono frantumi di un mondo che ha bisogno di ricostruzione ed attenzione e al quale si è pensato nel momento in cui abbiamo provato a rileggere la conformazione dell’Italia, guardandola non soltanto come divisa in sud, centro e nord, secondo la geopolitica tradizionale, ma come un paese diviso in Italia tirrenica, adriatica e appenninica.
Il Tirreno con le sue prospettive di fuga verso l’oceano e di scoperta marittima come in Caboto e Colombo, bello nella conformazione paesaggistica e funestato dalla delinquenza contagiata già dal trecento spagnolo, in mafia camorra e ndrangheta. L’Adriatico sede di pianure, un lago chiuso dove è fiorito il commercio tra sponde ravvicinate, spalle al mare aggredito dai turchi e dunque un progetto pragmatico di vita e di dialogo e di continue contrapposizioni tra i popoli.
E al centro l’Appennino, la cresta dell’Italia, luogo chiuso e ben protetto, al quale correvano i popoli in cerca di difesa e di meditazione e dal quale oggi si fugge in cerca di benessere e di fortuna.
Un’Italia verticale che si solleva di fronte a noi, come il tronco di un albero che ha i piedi nel Mediterraneo e la chioma in Europa, da una parte i monti Iblei e l’Aspromonte che guardano in faccia il Maghreb e dalla parte opposta le Alpi, che osservano Francia, Germania, Svizzera, Austria, Slovenia, Croazia.
L’Appennino spina dorsale e struttura portante della penisola.
Tutto cominciò nel 2003 con un romanzo di Raffaele Crovi edito da Mondadori, Appennino, appunto, nel quale lo scrittore emiliano raccontava la vita delle valli e delle colline chiuse tra Vetto e Cola, ripercorreva gli anni di gioventù, le tradizioni e le colture boschive, in un bisogno improvvisamente centrifugo da Milano e dalla vita frenetica della metropoli a cui si era affidato dai tempi dell’università.
L’Appennino che descriveva Crovi era all’opposto il luogo della lentezza, un mondo di artigiani e contadini che scandivano la vita a passi brevi e in tempi dilatati, in quanto fatti di riflessione e di dialogo con la terra e con la natura.
Era un’inversione di tendenza perché non favoriva i vettori dominanti della fuga dai luoghi dell’interno ma un cammino a ritroso, dalla pianura alle alture, dall’urbanistica cementificata ai condomini tra la calce, la pietra e la natura.
Quel tipo di vita si legava perfettamente a una cultura che guardava alle radici come patrimonio immateriale dell’uomo, una cultura che propone l’ esaltazione della memoria, della lentezza e della semplicità.
I temi dell’ambiente, la difesa dei boschi e delle pianure, la riconsiderazione della vita come luogo d’incontro tra l’uomo, la flora e la fauna. Era un appello e un invito a fermarsi, a ripensare gli stormi di rondini e i richiami dei canneti, il gorgoglio dei ruscelli, un invito a interrogarsi sul valore del nostro cammino, su questa corsa verso la ricchezza e lo status symbol.
Non il chi siamo e dove andiamo della filosofia, quanto il perché stiamo andando verso una cultura dell’edonismo e rinneghiamo ciò che viene da quanto consideriamo passato: la lentezza, l’amicizia e il piacere della cultura materiale, l’olio buono, il vino, l’odore degli orti, la menta, la salvia, l’origano, il prezzemolo.
Una sorta di archeologia dell’esistenza felpata.
Per rilanciare la vita e la cultura dell’interno a Edolo si è fondato un premio dedicato alla montagna, mentre i fratelli Lacorazza di Montemurro hanno dato vita, da un paio di anni, a una Fondazione Appennino.
Entrambi gli organismi promuovono nei paesi della cresta montana mercati, fiere e sagre ,che ripropongono le antiche colture e le tradizioni di un mondo frantumato dalla civiltà della pianura e della frenesia.
Il tutto, per chi cerchi approfondimenti, viene esposto in una collana di testi editi da Donzelli e Rubettino.