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Civiltà Appennino

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Spopolare, riabitare, urbanizzare: le contraddizioni di un dibattito

di Augusto Ciuffetti


 

Le più recenti analisi sulle aree interne sembrano muoversi in molte direzioni, spesso opposte e contraddittorie. Soltanto qualche mese fa, dalle colonne del “Corriere Adriatico”, il coordinatore della Fondazione Merloni, Donato Iacobucci, ha proposto una sorta di spopolamento programmato di alcune aree (quelle montane) a vantaggio di altre, capaci di raggiungere “livelli di densità compatibili con le attuali esigenze sociali ed economiche”. La tesi è che il modello insediativo della dorsale appenninica sia espressione di un’economia tradizionale, basata su agricoltura e pastorizia, totalmente ereditata dal passato e quindi non funzionale a nuovi e più avanzati scenari di modernità e sviluppo industriale.

In realtà, lo sforzo compiuto in questi ultimi anni da numerosi ricercatori è stato proprio quello di dimostrare il contrario, cioè di quanto sia necessario ripensare radicalmente tali percorsi, ormai condizionati da un’evidente crisi dell’intera società contemporanea, nella quale restano dominanti le logiche di un consumismo espressione di modelli industriali ed urbani impossibilitati a diminuire la loro “presa” su territori e ambienti.

Si è sottolineato più volte come l’Appennino, rispetto a questa visione non più sostenibile, possa costituire una sorta di laboratorio dell’innovazione, offrendo delle risposte alternative alla riproposizione di schemi ormai logori.

I territori dell’Appennino sono in grado di dimostrare come determinate forme insediative ed attente modalità di gestione delle risorse, in linea con la salvaguardia dell’ambiente e sperimentate in secoli e secoli di storia, ovviamente riviste e adeguate alle esigenze di oggi, possano risultare funzionali alla definizione di nuovi equilibri economici e demografici.

In altre parole, non è più pensabile che si possa continuare ad avere un processo di sviluppo univoco e soprattutto espressione di modelli ancora centrali negli ultimi decenni del secolo scorso, ma che ora rischiano di essere più vecchi delle stesse economie tradizionali degli spazi montani, in quanto incompatibili con un approccio di stampo ecologico alle questioni degli equilibri territoriali. Un approccio ormai ineludibile e impossibile da coniugare con ogni ipotesi di spopolamento programmato delle aree interne, chiamate a trasformarsi in preziose risorse per le aree urbane.

È proprio da una lettura di questo tipo che muove un altro recente percorso di studi e analisi, volto a ricucire legami e a trovare reciproci vantaggi tra città e montagna. Ogni progetto che tenta di riunire realtà così diverse e distanti, favorendo concrete ipotesi di coesistenza e sviluppo con l’obiettivo di avvicinare piuttosto che dividere e di abbozzare un unico spazio vitale per l’uomo, che dalla dimensione metropolitana si spinge fino ad includere quelle realtà considerate dalle stesse culture urbane come delle aree povere e marginali, non può che assumere una valenza rivoluzionaria. La ricerca di una dimensione di vita più equilibrata e in sintonia con la natura comporta, così, anche l’adozione di un lessico inedito e l’attribuzione di nuovi significati. Termini come città, ambiente, risorsa necessitano, infatti, di contenuti innovativi, in aperta rottura con una visione preponderante delle aree metropolitane, responsabile dei processi di spopolamento del passato. È in questa direzione che emergono i diversi percorsi del riabitare, oppure quelli delle dimore temporanee e delle comunità nomadi o quelli delle decisioni più forti e definitive che spingono intere famiglie o singoli individui a trasformarsi in montanari per effetto di scelte radicali.

Eppure, anche in prospettive come queste rimane evidente il rischio di una città chiamata ancora a svolgere un ruolo preminente, con delle aree montane o interne del tutto asservite alle esigenze di spazi urbani densamente abitati, dai quali, inevitabilmente, parte ogni sguardo rivolto all’entroterra. Qualsiasi dualismo, infatti, anche se riproposto nella chiave di una forte ed accettata condivisione territoriale (metropoli/montagna, urbano/montano, costa/area interna), determina sempre il prevalere, anche in termini lessicali, di un’espressione rispetto all’altra, e in questi casi è sempre la dimensione cittadina a risultare più forte e vincente.

Piuttosto che coniare neologismi, che nell’intento di ricucire profonde fratture potrebbero rimanere impigliati nella dimensione spesso persuasiva dello stereotipo e dello slogan, può essere più utile e conveniente, anche da un punto di vista operativo, utilizzare espressioni come sistema territoriale, che offrono delle visioni organiche degli spazi, alludendo a vere forme di collaborazione o di “alleanza”. Si tratta di definizioni che già contemplano, al loro interno, ogni possibile articolazione dell’urbano e del rurale, tale da comprendere città, montagne, campagne, paesi e villaggi più piccoli, ognuno con i propri assetti e con la sua profonda rete di rapporti e relazioni. È soltanto con una visione strutturale di questo genere che si possono evitare delle gerarchie destinate a favorire sempre la formazione di luoghi di marginalità e sudditanza. In questo modo diventa del tutto superflua anche la ricerca, all’interno degli spazi rurali, in un passato più o meno remoto, di evidenti forme di urbanità, come espressione di un legame o di una supposta unità da riproporre nel nostro presente.

La ricerca di forme riconducibili, anche da un punto di vista meramente culturale, ad una dimensione di città collocata all’interno delle campagne non solo è destinata a riproporre le solite gerarchie territoriali che, invece, si dovrebbero superare, ma rischia di fornire anche delle letture forvianti, come quelle che, in riferimento al medioevo, vedono le foreste come una sorta di prolungamento delle città e i monasteri benedettini come incubatori di urbanità. Nel passato come oggi i mondi rurali e quelli delle città sono sempre separati, con caratteristiche proprie e forti identità, ma legati da feconde relazioni. Sono questi rapporti che si dovrebbero recuperare e collocare al centro di ogni progetto di rilancio delle aree interne e ciò significa anche ripartire da a queste ultime e non dalle sole esigenze delle grandi metropoli.

 


Crediti. Foto copertina di Marco Pomella da Pixabay
Augusto Ciuffetti
Augusto Ciuffetti è ricercatore e docente di storia economica e sociale presso la Facoltà di Economia Giorgio Fuà dell’Università Politecnica delle Marche.
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