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Civiltà Appennino

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Ossi di polpa, il pieno dai vuoti.

di Piero Lacorazza


 

«L’Appennino è contemplazione e ricerca, memoria e utopia, fuga dai miti e rifondazione di altri miti. Terra che non è più Oriente e non è ancora Occidente, eppure li contiene entrambi. Il luogo dove le fole del vento portano le spore dei sogni. L’Appennino è il legame orografico e politico tra il Mediterraneo e l’Europa, come la grande ascissa che collega le ordinate della povertà e del benessere economico». Sono le ultime righe del “Manifesto di una scrittura d’Appennino” di Raffaele Nigro e Giuseppe Lupo che chiude il primo libro della serie “Civiltà Appennino” curato da Fondazione Appennino e pubblicato dalla casa editrice Donzelli ad inizio 2020.

Un manifesto della parola e del linguaggio che ridefinisce «la coordinate di un pensiero che procede oltre la dimensione del tempo e abbraccia lo spazio, abbandona o nega la funzione verticale della Storia e si affida alla lettura orizzontale della geografia disponendosi lungo una dorsale appenninica».

 

Di questo nuovo sguardo, di questo nuovo approccio, abbiamo discusso con Vinicio Capossela, in occasione dello Sponz Fest appena terminato a Calitri in Irpinia e dedicato alla stesura di “manifesto per le aree interne”. La musica è una straordinaria imbarcazione culturale che, attraverso sonorità e parole, si colloca a favore del vento della sostenibilità e dell’ecologismo produttivo non affondando nel mare di una globalizzazione che rende tutto omogeneo, indistinto e quindi ineluttabile per le aree marginali.

“Le terre dello spolpo” come le hanno definite Donatella Di Pietrantonio (tra le autrici de “Le vie dell’acqua”, Donzelli 2020) e Licia Giaquinto in un racconto presentato allo Sponz Fest. Terre nelle quali «di notte i morti in quella poca luce dei lumini giocano a tressette col vivo». E c’è chi vorrebbe con l’idea dello “spopolamento programmato” che neanche più il tressette si possa giocare tra i tavoli di un bar e i loculi di un cimitero. Lo “spolpamento” è stato al centro di una nostra riflessione qualche settimana fa (“Spolpamento programmato”).

Non solo le “tre Italie” o il dualismo tra Nord e Sud ma la definizione di una nuova traiettoria, più marcata nella rappresentazione tanto reale quanto metaforica dei “divari”, che apra ad una diversa postura, ad «una nuova visione dell’Italia…il miglior equilibrio possibile tra le persone, le risorse e i territori». Così Domenico Cersosimo e Carmine Donzelli scrivono nell’introduzione del “Manifesto per Riabitare l’Italia” (Donzelli, 2020). E sostenendo la necessità di aprire una discussione per «ripensare le forme stesse dell’insediamento, della mobilità, del rapporto con l’ambiente e con la salute, del lavoro, della qualità della vita» ci si pone il proposito di «contribuire a creare una nuova immagine aggregata dell’intero Paese».

 

E questa nuova immagine aggregata dell’Italia che rende la dorsale Appenninica una cerniera fondamentale e con “Le vie dell’acqua” ne fissa la sua coesione cucendone anche i lembi, dalle sorgenti allo sbocco in mare. «I fiumi non solo hanno i ponti, ma sono essi stessi ponti. Ponti tra epoche e ponti tra territori». Cosi scriviamo nella presentazione del secondo volume della serie Civiltà Appennino “Le vie dell’acqua – L’Appennino raccontato attraverso i fiumi” (Donzelli, 2020). Un libro navigabile che offre orizzonti di umanità, emozioni narrate, vertigini fantastiche, bussole semantiche, salti valoriali. Si può avere la sensazione di trovarsi in una burrasca letteraria senza un porto sicuro. Ma questo libro si legge da poppa, come se, lungo il viaggio della vita, non si dovesse perdere mai la possibilità di voltarsi e buttare un occhio alla sorgente. La sorgente è «la storia fatta dagli uomini e non disegnata da altri per loro. Non è un abito di ferro ma una muta di gomma nella quale possono entrare piccoli e grandi e alla quale noi diamo forma. Soffrendo e lottando». Scrive Raffaele Nigro in “Le vie dell’acqua”.

 

E ancora una volta ritorna con forza il rapporto tra storia e spazi perché «possono entrare piccoli e grandi», non solo gli uni o gli altri: la storia è fatta da entrambi.

«Osservare il paese dal margine non vuol dire disconoscere l’importanza della città e degli agglomerati metropolitani e del loro vitalismo creativo ed innovativo nel campo sociale, produttivo e civile…occorre una ricerca attiva sulle nuove e potenziali connessioni tra luoghi e soggetti diversi, sospendendo l’attuale catena gerarchica tra un sopra e sotto, tra un prima d’un dopo, tra locomotore e vagoni». É la postura di Domenico Cersosimo e Carmine Donzelli (Manifesto per riabitare l’Italia) che sembra incrociare lo sguardo di Raffaele Nigro: «…la storia è una muta di gomma nella quale possono entrare piccoli e grandi, appunto, senza nessuna catena gerarchica».

Ma non c’è solo una diversa postura per osservare.

Crediamo ci possa essere una nuova postura anche per ascoltare «ambienti, spazi e passaggi che rilevano conflitti e trasformazioni territoriali che investono gli ecosistemi ideologici, infrastrutturali e biologici dei quali siamo parte. In questo senso le pratiche di ascolto ci spingono ad attraversare criticamente le aree di confine dei territori rurali, mettendo in discussione concetti persistenti che riguardano l’ineluttabile marginalità… » (dal manifesto del Futurismo rurale di Leandro Pisani e Beatrice Ferrara – associazione Liminaria).

A Castiglione d’Otranto – non un territorio appenninico – partecipando recentemente, su invito di Tiziana Colluto, alla Notte Verde promossa dalla Casa delle AgriCulture Tullia e Gino, abbiamo verificato quanto sia importante osservare ed ascoltare, mettersi in rete, scambiarsi esperienze, e infine darsi voce e dare voce agli innovatori sociali.

Sono state tante le iniziative a cui abbiamo partecipato negli ultimi tre mesi.

Abbiamo incontrato persone, idee, progetti, criticità, opportunità ed emozioni.

Ne usciamo più pieni – a proposito dei vuoti delle aree interne – e carichi di prima poiché l’asse culturale ed editoriale definito da “Civiltà Appennino” e il binario sociale ed imprenditoriale su cui sta investendo Fondazione Appennino ci sembrano essere quelli giusti.

Piero Lacorazza
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