Le Alpi Apuane come civiltà da preservare
di Nunzio Festa
Le Apuane sono un nuovo riferimento sensoriale.
Abituati come eravamo a sentire il Pollino o il Sirino battere in lontananza, oppure la gravità materica delle Piccole Dolomiti Lucane farci giungere alle pupille la sorte della storia e la frenesia del verde, aggiungere alle tasche della conoscenza tappe della vita dell’umanità scandita dal quotidiano e dal passato completamente, o quasi, passato.
Le Alpi Apuane, che le si scorgano dal Magra di Dante e Shelley, che le si inquadri più da vicino passando le curve di Toscana e Liguria d’altezza e dalla tante basse diffuse marine, si propongono sempre con la stessa intenzione. Da qualsiasi punto d’osservazione entriamo in contatto, i graffi e i morsi dei cavatori di marmo di Carrara evidenziano una lunga sfilata di buchi sul corpo. Una pezzatura d’economia.
Ma la questione, evidentemente, è sempre dibattuta. Fa sempre e comunque cronaca. E tutti i giorni i giornali della zona ospitano, non tutti e non tutto di certo, la discussione sempre aperta sulla base del ragionamento: si deve continuare a mantenere gli interessi dello sviluppo legati solamente alle dinamiche della lavorazione ed esportazione del marmo.
Gli anarchici hanno una risposta certa. Perché – occorre ricordare – gran parte di quest’emisfero incastonato nelle forme d’abbandono e marginalità, come tanti paesi a noi più noti della Basilicata e di tutto il resto dell’ex Belpaese, ma sperimentato, a tappe e momenti alterni e alternati, nella solita ragione del turismo di tutti i tipi, è cuore della rivolta. Di partigiani. Epperò soprattutto terreno d’origine del pensiero e della pratica anarchica. Si pensi, per dire, che da un piccolo soffio delle sofferenze di proletariato carrarino, l’anarchico Goliardo Fiaschi partì in bicicletta per andare a compiere il suo dovere: uccidere il dittatore Francisco Franco. Purtroppo, è evidente, si sa come andò la storia. Fiaschi vent’anni nelle galere di Spagna. Il caudillo Franco forte al posto di potere e dominio su tutta la nazione, nonostante di decenni del Novecento dall’azione di Fiaschi ne erano passati parecchi.
Insomma i gruppi e i pensatori vari anarchici da Carrara a Gragnano e ben oltre, giorno per giorno ricordano che ai tempi del Durante della Comedìa la Lunigiana e i suoi boccioli di terra eran grembo gravido dell’agricoltura. Non patria dei gruppi di potere del marmo. Che dai Romani ad allora, sotto mezzo volto delle Apuane infatti vediamo l’Antica Luni e la più nuova Sarzana dei Napoleone, la cavatura del marmo era fuori dalla vita delle popolazioni di questo batticuore marginale del mondo. Di questa altra terra di confine, e confini. Tanto che ogni volta si deve capire se ci troviamo, per esempio, in Liguria o in Toscana.
Comunque dalla scalata di Colonnata alla vetta dei Ponti di Vara, che poi è uno, un fermo vento propone quest’avventura dei fianchi rosicchiati, mentre sul mare e sulle case a pochi grammi di respiro dalla spiaggia la pressione della rinascita di queste comunque preme a evidenti millimetri, narra col megafono della nostalgia la ferrovia marmifera. Dopo il passaggio dalla lizzatura, il trasporto a mano dei blocchi, a quello dei macchinari in ausilio ai camion dei carichi pendenti e ruzzolanti sull’Aurelia e le altre arterie viarie della modalità in gomma più giusta per gli interessi dei privati in sostituzione della strada ferrata. Con la benedizione dell’Accademia delle Belle Arti di Carrara e delle varie manifestazioni, eventi estemporanei e scuole dedicate all’arte della lavorazione artistica del bianco più conosciuto al mondo.
Critiche e affinità col resto dell’Appennino italiano sarebbero davvero tante. Troppe, da volerle chiudere in una sintesi.
Allora si potrebbe ragionare sui tratti comuni delle molecole di vita di queste aree. Che sono aree interne ed esterne. Apparentemente, poi, chiuse. Però grandemente aperte in direzione delle foreste e delle città d’altri spuntoni di Nord e delle dimensioni meridionali stese nei panni delle paesi in vacanza somiglianti.
Dal castelli di Fosdinovo dei tremendi Malatesta a quello di Castelnuovo Magra dei Vescovi di Luni, con tanto di pace testimoniata sempre da Dante Alighieri fra questi guelfi e ghibellini nel 1306, l’ovvio mistero emanato sa del fascino degli antichi bastioni spiati col binocolo dal sig. Pollino.
Di certo qui c’è stata la Resistenza. Combattuta. Potente. Le battaglie fra Vinca e altri territori più sotto, con l’esempio sarzanese ancora, seppure per ricordi, in auge. Le avventure e le vite di battaglia di tanti comandanti partigiani delle brigate lunigianesi e non solo. Il mitico, ammazzato dai “suoi”, Faccio. Calabrese di nascita, per giunta. Ma a Sud abbiamo avuto più avanti le rivolte bracciantili, molto più simili a questi esempi rispetto al brigantaggio ovviamente.
Eppure quel che con maggiore pressione ci da una chiara misura di ripetizione è altra cosa ancora.
E la troviamo nei borghi e nei paesi che raccolgono a malapena, e perfino non per tutto il periodo dell’anno, qualche centinaio di persone nelle dimore appartate. Sempre dove s’ascolta il richiamo delle Alpi Apuane, magari si vedono benissimo o a mozzichi il Magra, il Mar Tirreno e persino un’approssimazione spesso solida della Corsica. Ritrovando il bar, ristorante, bottega. Tutto in uno. Le tante maestà, ovvero quegli alto rilievi in marmo e qualche basso rilievo cinquecenteschi come seicenteschi eccetera rappresentati le storie dei religiosi, di santi, madonne, potenti e combattenti della storia diffusa e della solita devozione popolana. Un poco come edicole votive d’altri battiti italioti. E così via. A formare l’immagine d’un’altra civiltà da tutelare.
Credits foto: Ravera Cristoforo, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons