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Civiltà Appennino

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Ribaltare le prospettive

Verso un manifesto dell’Appennino laboratorio per il futuro

di Augusto Ciuffetti


 

Cosa sono oggi le aree interne dell’Appennino centrale, in particolare quelle colpite dagli eventi sismici del 2016-2017? Sono dei territori sconfitti e consegnati per sempre alla marginalità? Oppure questa è una semplice lettura che dobbiamo avere la forza di superare?

Dagli anni del Miracolo economico in poi questi spazi montani sono diventati sinonimo di arretratezza e povertà; sono diventati un semplice bacino fornitore di manodopera da mettere a disposizione di un sistema industriale avvolto in un’ottimistica idea di progresso capace di andare, almeno in apparenza, oltre ogni difficoltà e di realizzare, quindi, il sogno di un benessere diffuso mai visto in precedenza. La grande città con le sue fabbriche, le sue luci, i suoi negozi, i suoi ritmi incalzanti ha schiacciato e piegato alla sua logica le aree appenniniche, ha frantumato le sue comunità, destinate a diventate il luogo di un passato da superare per sempre e magari anche da dimenticare. Per conoscere una vita migliore bisognava partire, bisognava andare via e cancellare il passato, magari verso Roma, oppure le città del Nord, oppure in Svizzera o in Germania.

È dall’esterno dell’Appennino che è iniziata, così, una lettura delle sue storie e della sua cultura funzionale a questa dimensione. Una visione del tutto fuorviante, perché guidata da una forza omologante incapace di comprendere una diversità, rispetto al nuovo modello economico dominante, fatta di “antiche” relazioni economiche e sociali, di piccole comunità, di equilibri quotidiani, di tempi lunghi e lenti.

Lo sviluppo, la crescita, il progresso stesso sembravano scorrere altrove. La montagna appenninica con le sue dinamiche agro-silvo-pastorali non poteva più competere con gli spazi metropolitani, con le grandi industrie e con il turismo di massa delle zone costiere. Quando si guarda alla montagna, dagli anni Sessanta in poi del Novecento, ciò avviene sempre partendo dalla città. Si lascia quest’ultima per andare a passeggiare in spazi considerati incontaminati e selvaggi, oppure per andare a sciare, ma gli impianti di risalita non sono altro che una propaggine della città stessa e dei suoi stili di vita.

Lo sviluppo turistico di questo periodo legato agli impianti di risalita è ingannevole e nulla lascia sul territorio, semmai solo la sua cementificazione con il proliferare delle seconde case, spesso costruite su quelli che in precedenza erano dei pascoli, cioè terreni di proprietà collettiva delle comunità locali. I contadini-pastori si trasformano in muratori e manovali e nei mesi invernali lavorano come semplici operai negli impianti per gli sport invernali, in nome di una nota attitudine alla pluriattività che proviene dal passato.

Poi arrivano i terremoti e i processi di perdita e invecchiamento della popolazione che sembrano inarrestabili, insieme ad un’economia che si adatta a sopravvivere all’ombra dell’assistenzialismo di Stato, ma ci sono anche i ritorni (i vecchi emigranti che riprendono possesso delle loro case al momento del pensionamento), il consolidarsi di un nuovo orizzonte sociale e di una coscienza ambientalista sempre più forte e consapevole.

Le comunità appenniniche si spopolano ma resistono, mentre ad entrare in crisi sono le grandi aree metropolitane, che scoprono lacerazioni e conflitti sempre più profondi. Entra in crisi il modello della fabbrica fordista, cresce la disoccupazione, il consumismo si avvita sempre più in una spirale senza vie d’uscita, le periferie urbane, frutto delle speculazioni edilizie, si trasformano in spazi invivibili, l’inquinamento muta gli stili di vita e mostra tutti i limiti di un modello economico basato su una logica ingannevole di crescita continua e infinita.

È in questo scenario che oggi si torna ad osservare la montagna e le aree appenniniche, ma in nome di un utilitarismo che vuole strumentalizzare questi spazi come un’ancora di salvezza, una valvola di sfogo. Ancora una volta si tratta di un approccio fuorviante. Dalla città si torna a guardare alla montagna perché sono le metropoli ad avere bisogno degli spazi vitali di quest’ultima.  Dagli studi delle archistar posti negli ultimi piani di grattacieli falsamente immaginati come ecocompatibili, oppure in loft lussuosi, si lanciano proposte di progetti su una supposta rivitalizzazione di borghi rurali mai considerati in precedenza. Non si può non vedere in tutto ciò l’emergere di nuove forme di asservimento e sfruttamento, in alcuni casi sostenute anche dai lenti processi di ricostruzione successivi al sisma. Seguire questa logica significa rimanere imprigionati dentro il solito modello economico che ormai ha mostrato tutti i suoi limiti e le sue insuperabili contraddizioni. Seguire queste logiche significa continuare a camminare lungo la strada del disastro ambientale.

È proprio di fronte a tali prospettive che l’Appennino può diventare qualcosa di nuovo e di diverso e si può trasformare in un laboratorio di futuro.

La montagna è sempre stata alternativa ai modelli economici e sociali dominanti e questo suo assetto va riscoperto. Di fronte al fallimento del consumismo e di una logica economica incentrata su un esasperato individualismo, l’Appennino, con le sue economie basate sulla comunità e su una salda dimensione collettiva, offre delle opportunità inedite.

Per procedere in tale direzione, però, sono necessarie due condizioni. La prima: cambiare il paradigma economico generale dominato da un capitalismo la cui unica vocazione, in una prospettiva mondiale, è quella dello sfruttamento; la seconda: ribaltare le consolidate chiavi di lettura dei territori, attraverso un approccio rivoluzionario.

Per disegnare nuove prospettive bisogna partire dalle aree più fragili e dai loro modelli, recuperandone una piena funzionalità, per poi provare a trasformarli in proposte attuabili anche altrove. In Italia, il riferimento non può che essere all’Appennino centrale e alle sue economie organizzate intorno agli assetti dei beni comuni e delle proprietà collettive. In molti centri, le comunanze agrarie per il settore primario e le cooperative di comunità per le attività artigianali e manifatturiere, ma anche per la gestione dei servizi e di un turismo davvero sostenibile sono già una consolidata realtà.

È questo il laboratorio Appennino al quale si fa riferimento e forse per le aree interne dell’Italia mediana, anche sulla spinta delle urgenze legate alla ricostruzione, è arrivato il momento di assumere una nuova centralità e di lanciare un chiaro messaggio in direzione di un altrove, ormai lontano e irraggiungibile, che non rappresenta più il vero benessere e un futuro certo.


credits. Foto copertina di Free-Photos da Pixabay

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Augusto Ciuffetti
Docente di storia economica e sociale presso la Facoltà di Economia dell’Università Politecnica delle Marche
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