Voglio andare a vivere in campagna
“Voglio ritornare alla campagna,
Voglio zappar la terra e fare la legna,
Ma vivo qui città
che fredda ‘sta tribù
Non si può più comunicare
Qui non si può più respirare
il cielo non è più blu
E io non mi diverto più…”
Ma questo desiderio cantato da Toto Cutugno al festival di Sanremo 1995 è una tendenza che si riscontra nei flussi demografici?
“Il futuro è nei borghi” dichiarava l’architetto Boeri a fine aprile 2020, nel pieno della prima ondata pandemica. E non solo lui. In molti hanno accompagnato questa idea. Diciamo che Toto Cutugno, l’eterno secondo, questa volta è arrivato primo. Vediamo i dati, osserviamo la tendenza.
Al 2065 la popolazione mondiale passerà da circa 8 md attuali a 9,7 md (+ 1,7 md), gli africani saranno quasi il doppio, in Europa avremo un decremento di 20 ml di cittadini e il nostro bel Paese perderà circa 7 ml di italiani. Nel 2010 la popolazione urbana mondiale ha superato quella rurale.
In Italia negli ultimi 20 anni nelle aree interne si è registrato anche un decremento demografico del 50% e oltre.
E la tendenza non si inverte con qualche discussione online in più.
Nel 2030 il 60% di abitanti del pianeta vivrà nelle città. Ciò è ancor più vero in Europa, dove la popolazione urbana sfiorerà il 70% di quella complessiva. L’Italia è pienamente dentro questo flusso.
La Banca Mondiale stima che le città generino, già oggi, oltre l’80% del Pil globale.
E quindi siamo spacciati poiché ogni ragionamento sulle aree interne risulta controvento e inutile? No. È necessario ragionare con una qualche dose di realismo per calibrare meglio e più precisamente le scelte politiche e gli obiettivi della programmazione.
Questa pandemia da Covid-19 non determinerà spostamenti biblici dalle città alle campagne. La tendenza è chiara: nessuna inversione.
Allo stesso tempo si dovrà evitare subalternità dei “margini” ai “centri”, analizzare gli spazi, gli interstizi nei quali osservare con millimetrica precisione la costruzione di intelligenti alleanze e politiche adeguate mettendo tutti, proprio tutti, nelle condizioni di avere una opportunità, una convenienza, una vita da vivere migliore per sé e innanzitutto per i propri figli.
Da dove partiamo? La MacArthur Foundation ci dice che le città consumano il 75% delle risorse naturali – che sappiano non essere infinite -, producono il 50% dei rifiuti e l’80% delle emissioni di CO2.
Lo sappiamo: con questi numeri si va sbattere se nulla cambia. Anzi se si mantiene l’andamento attuale la temperatura globale aumenterà alla fine del XXI secolo di 3°C con effetti disastrosi sugli equilibri ambientali e sociali. Si calcola che per ogni 10% di aumento della popolazione urbana crescono del 6,7% le emissioni di CO2 pro-capite e del 9,6% l’inquinamento da polvere sottili.
Insomma questi dati indicano che il “peso” delle città cresce sia in termini di condizionamento che di insostenibilità. È un avvitamento, un circolo vizioso che non si interrompe cantando “Voglio andare a vivere in campagna”.
Nessuno di noi ha soluzioni e verità assolute ma proviamo a darci una traccia per fermare l’emorragia e già l’articolo 3 della Costituzione italiana mi sembra quella naturale e necessaria per rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Serve un laccio emostatico prima che, in attesa della messa a terra della programmazione – NextGenerationEu compreso –, cadano dissanguate le aree interne dell’Italia. Nel segnalare positivamente la continuità evolutiva della SNAI, delle politiche per il Sud e la Coesione Territoriale, siamo chiamati a fare delle cose subito altrimenti nessuna trasfusione salverà i margini rispetto ai centri “vampiri”.
Fuor da metafora servono politiche pubbliche, anche intese come legislazione – non solo una programmazione – differenziata per rendere esigibili diritti di cittadinanza, oltre il parametro quantitativo della densità di popolazione senza inclinare troppo il piano della qualità. Ciò vale innanzitutto per la salute, per l’istruzione e per la mobilità. E allo stesso tempo ci vuole un patto per il lavoro da sottoscrivere con le parti sociali e con le istituzioni del territorio. È necessario chiamare dentro questa sfida l’industria, l’artigianato, il commercio. L’impresa, anche quella grande, e le Città dovrebbero essere protagoniste di questa sfida poiché un Piano per la Ripresa e la Resilienza passa esattamente dentro un nuovo equilibrio, in cui il gioco di delicati assetti di poteri, soprattutto nell’allocazione delle risorse, assuma la consapevolezza che serve una risposta ai “margini” oggi per avere dei “centri” migliori domani.
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