Una rosa nel calamaio dell’Appennino
“Roma per vivere, Milano per lavorare!”. Era una frase che spesso risuonava tra le mura di casa e riaccende ricordi di infanzia di oltre 40 anni fa, prima di quel 31 gennaio 1981 quando ai familiari giunse la notizia della morte inaspettata di Leonardo Sinisgalli. Viveva appunto a Roma dove ha trascorso gran parte della sua vita, mentre a Milano erano legate le sue prime stagioni di lavoro nel mondo dell’industria italiana.
Quando tornava a Montemurro, con le contraddizioni di tutte le anime complesse che tornano nei loro luoghi dell’anima, ai suoi cari ripeteva spesso questo mantra che però, per lui, era anche un modo di raccontarsi.
Le metropoli sono state meta e partenza di una via maestra percorsa in età matura, il mito del Miracolo Italiano pienamente vissuto dal di dentro, da protagonista, con l’esplosione di un benessere che ha toccato una intera nazione, ma per lo più ha cambiato le grandi città industriali del nord.
Forse era normale che per un uomo del sud, nato in un borgo d’Appennino lucano ed andato via a 9 anni, quella vita fosse il coronamento di sogni legittimi.
Però, sarà stato per sola vena poetica o per dolce consapevolezza in un attimo di nostalgia nel 1945, ormai maturo 37enne, domiciliato a Milano da anni, nel raccontare la sua partenza dal paese per intraprendere gli studi a Caserta, che scrisse: “io dico qualche volta per celia che sono morto a 9 anni…” (Fiori pari, fiori dispari – Mondadori – 1945).
Lasciare il paese è stato per Leonardo Sinisgalli come morire? Ma dunque la vita vera per lui era nelle metropoli o nel borgo di nascita? Viveva un conflitto interno tra una identità ed una vocazione? Tra un essere e un voler essere? Tra due mondi opposti? E quale apprezzava di più?
In realtà, a conoscere tutta la sua vita e la sua opera professionale e letteraria, più che ad un conflitto interno si fa meno fatica a pensare che in lui abitava già un’idea di “convivenza” tra culture; ed anche dunque tra la cultura della metropoli e quella del paese. Come, del resto, tutto il suo essere ed il suo fare è stato caratterizzato dalla capacità di mettere insieme mondi apparentemente opposti e discipline teoricamente incompatibili, e fonderli in una visione unica, globale, in cui a contare era la radice dei pensieri prima che del loro sviluppo.
Ciò avvenne in maniera più evidente con Civiltà delle Macchine, la rivista di Finmeccanica che fondò nel 1953 e diresse fino al 1958 e che fu la massima testimonianza del suo pensare e del suo essere.
Ma veniamo ai giorni nostri, a 40 anni dalla sua morte. Oggi la sua idea di “civiltà” avrebbe forse avuto questa visione, facendo i conti con un uso delle nuove macchine e con una rinnovata e continua sfida con l’uomo; il tema su sui discutevano con lui negli anni Cinquanta Ungaretti e Montale oggi è diventato digitale, siamo “all’onlife”, e sarebbe stato illuminante forse comprendere il suo approccio in questa fase della nostra epoca dell’ipercomunicazione.
Il tema della tecnologia al servizio dell’uomo e non viceversa è ciò che oggi riporta la discussione anche nel dibattito che riguarda il ritorno ai borghi, passando inevitabilmente dalla consapevolezza che l’appello rimane tale se non supportato da trasformazioni culturali e tecnologiche innanzitutto, semplicemente perchè è un appello rivolto ad una popolazione più giovane ed attiva e non certo a pensionati emigrati che ritornano al paese per la vecchiaia. E Sinisgalli forse può aiutare. Nel panorama intellettuale del secolo scorso rappresenta un’identità complessa e multiforme che forse oggi può offrire spunti e idee che possono catturare l’interesse anche dei più giovani, attingendo anche dalla figura di uomo di marketing o, per meglio dire, un “poeta di marketing”.
Le emozioni sono la leva con cui i poeti stimolano l’anima e un poeta le sa immaginare e tradurre in parole, in immagini. Ma un uomo di marketing e pubblicità sa anche che le emozioni servono a stimolare la propensione all’azione: all’acquistare, al muoversi, al fare.
E’ qui che si nasconde l’Appennino di Sinisgalli: un luogo in cui le emozioni della Cultura, della Letteratura, della Scienza e Conoscenza, debbano servire a stimolare la fruizione di un prodotto che alla fine viene acquisito affinché possa soddisfare un bisogno, oltre la suggestione che appaga l’anima in un singolo istante.
La poesia resta comunque. E quanta poesia c’è molto spesso anche nelle idee creative di un uomo di marketing? Sia esso di altri tempi che contemporaneo. Solo che a volte serve aggiungere anche un “perché”, un “why”, e forse la poesia assolve anche ad un compito di comunicazione in più. Del resto, Sinisgalli lo ha già fatto sin dai tempi della Olivetti, nel 1938, quando infilò una rosa in un calamaio trasformandola in una metafora poetica con un fine preciso: far vendere la nuova macchina da scrivere Olivetti. Il fascino e la suggestione poetica non ne erano sminuiti, tant’è che oggi è un esempio molto citato, semplicemente faceva un “servizio” in più. Un servizio utile ad uno scopo.
L’insegnamento sinisgalliano può portare a inserire ora più che mai una rosa nel calamaio dell’Appennino, in cui la “civiltà delle macchine” si trasformi in percorso consapevole da immaginare. Anche perché oggi, a 40 anni dal 1981, in tanti borghi possono essere nati tanti nuovi Leonardo Sinisgalli che si chiedono: “perché no?”.
Nel contemporaneo dibattito sinisgalliano sulle nuove macchine, ovviamente, è necessario far rientrare anche l’attenzione a rischi e pericoli ad esse connesse. Ma, anche qui, rileggere il pensiero di Sinisgalli conferma quanto già decenni prima fosse stato lungimirante nello scrivere: “Una macchina intelligente può fabbricare oggetti stupidi. Così spesso l’intelligenza si trova compromessa con l’idiozia” (Calcoli e fandonie – Mondadori 1970)
Le macchine e i nuovi linguaggi davvero possono unirsi alla poesia e regalare un sogno ed insieme una motivazione a fare, ad “acquistare” anche una nuova dimensione di vita che abbia una visione futura per chi magari potrà “vivere nel borgo e lavorare nel mondo”.
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