Aree interne e lavoro: la grande sfida dello smart working al tempo della pandemia
Senza scomodare “Tempi moderni”, le suggestioni cinematografiche dell’ultimo mezzo secolo mostrano plasticamente il legame inscindibile tra lavoro e luogo. Nei titoli di testa de “Il Posto” di Ermanno Olmi (1961), si legge “Per la gente che vive nelle cittadine e nei paesi della Lombardia, intorno alla grande città, Milano significa soprattutto il posto di lavoro”. Tutti ricordano, poi, le mattine di Fantozzi (1975) e le corse dell’affannato impiegato per timbrare il cartellino in entrata e raggiungere in tempo il luogo di lavoro. Fino ad arrivare a tempi più recenti e ad ambiti più tecnologici come il contesto del call center, che viene rappresentato da Virzì in “Tutta la vita davanti” (2008), come un affollato stanzone dove gli operatori hanno il loro box, il loro PC e le loro cuffie.
L’emergenza sanitaria ha scardinato questi stereotipi e l’irrompere dello smart working ha spezzato quel binomio tra lavoro e unità di luogo che era stato alla base della concezione del lavoro dall’inizio dell’industrialismo fino alla fine ‘900. La collocazione delle attività produttive è stato il motore fondante delle concentrazioni demografiche a partire dalla grande emigrazione dal sud al nord Italia, che negli anni del boom economico ha visto spostare la residenza di più di 4 milioni di persone, fino ad arrivare all’analisi più recente di Enrico Moretti (trad. it. E. Moretti, La nuova geografia dei lavori, Mondadori, 2013), secondo la quale, nell’economia dell’innovazione più che mai, le persone scelgono dove abitare perché attratte da quell’ “ecosistema” che si crea intorno alla concentrazione dei colossi delle nuove tecnologie (la Silycon Valley con Google, Seattle con Microsoft etc.).
Dopo lo shock pandemico, ci si chiede se la possibilità di lavorare da casa non sia in grado di ribaltare questa prospettiva, ponendo il lavoratore e le sue scelte abitative al centro delle dinamiche demografiche, modificando il rapporto tra lavoro e territorio e capovolgendo l’idea che pone l’impresa al centro della geografia economica. Che non si tratti di mera fantasia ma di una possibilità concreta, è dimostrato dal fenomeno del c.d. “Southworking”, recentemente misurato dal rapporto Svimez 2020 in quello spostamento di circa 45 mila persone che, pur essendo impiegate presso imprese del nord Italia, vivono, lavorando in smart working, nelle proprie città di origine del sud.
Quali sono, in questo scenario, le opportunità per le aree interne? E’ possibile che si crei un fenomeno, per la prima volta spontaneo e non indotto da politiche pubbliche di incentivo, in grado di invertire quella corsa verso lo spopolamento che purtroppo ha investito borghi e città delle aree interne negli ultimi decenni?
Certo occorrerà attendere la fine dell’emergenza sanitaria per capire se il lavoro da remoto diventerà un fenomeno strutturale, oltre a considerare (non bisogna dimenticarlo) che non tutte le attività di lavoro possono essere svolte in smart working.
Ma, al di là delle prospettive di affermazione dello smart working, anche le aree interne dovranno farsi trovare pronte al cambiamento (su Vita e Pensiero del 5 dicembre 2020, Giuseppe Lupo ha di recente messo in guardia dal rischio de L’“ingannevole” resurrezione del Meridione nella pandemia, ma un discorso non troppo dissimile si può fare per le aree interne). Se, infatti, è il lavoratore a scegliere dove vivere, la scelta sarà mossa anche dalla presenza di adeguati “servizi di cittadinanza” (a partire dai classici sanità, istruzione, mobilità): in altre parole, non basta la nostalgia dei borghi e il benessere dell’aria, c’è bisogno anche dell’economia fondamentale (Collettivo per l’economia fondamentale, Economia Fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana, Einaudi, 2019).
Si deve allora cominciare a riflettere sulle le politiche di coesione, a partire dalla Strategia Nazionale per Aree Interne, per far fronte all’ondata dello smart working e coglierne tutte le opportunità, immaginando di calibrare l’essenzialità dei servizi sulla base di alcune priorità a partire, ad esempio, dal Digital Divide che ancora caratterizza molte delle nostre aree interne, oppure prevedendo appositi meccanismi di incentivo per le imprese che intendano facilitare lo smart working cui sono collegate precise scelte abitative.
E’ possibile dunque che siano i luoghi ad attrarre le persone, che a loro volta attraggono le imprese, e non viceversa? Si tratta di una grande sfida, che mette in discussione la storia plurisecolare del rapporto tra lavoro e geografia.
Aveva probabilmente visto molto lungo Robert Reich, quando già nel 1991 spiegava l’attrattività dei luoghi non tanto in virtù del loro essere sedi di imprese importanti, quanto nella loro capacità, per lo standard di vita offerto, di attirare capitale umano di eccellenza (trad. it. R. Reich, La ricchezza delle nazioni, Il sole 24 ore, 1993). Il punto è che lavoro e servizi di cittadinanza sono i due lati inscindibili di un’unica medaglia: pensare a politiche (ri)abitative (Manifesto per riabitare l’Italia, Donzelli 2020) senza la leva del lavoro è come fare i conti senza l’oste, ma allo stesso tempo non basta poter scegliere dove lavorare per immaginare una modifica di lungo periodo degli equilibri demografici delle aree interne.