Esperienze di sharing e comunicazione nell’era del coronavirus
di Laura Bovone
Ci siamo chiesti in molti come sarebbe stata la pandemia e la condanna all’isolamento che ne è derivata una ventina di anni fa, quando i media di massa la facevano ancora da padroni e solo internet permetteva di connettersi con il mondo più vasto godendo di una qualche autonomia. I giovani si lamentano, e giustamente, del confinamento forzato, eppure tale confinamento è caratterizzato e per così dire mitigato dalle apparecchiature mobili di comunicazione e dalle piattaforme dei social network che, a partire dall’inizio del nuovo millennio, ci hanno abituato a un intreccio imprescindibile tra comunicazione faccia a faccia e comunicazione mediata. Tale processo di mediatizzazione sociale è certamente la chiave di lettura che ci permette di capire sia le risorse di cui ha potuto fortunatamente godere il difficile momento di lockdown che ci tocca di vivere sia i limiti di tali risorse e perciò anche le ragioni degli educati movimenti di protesta dei liceali che vogliono tornare a scuola.
Da una decina d’anni la mediatizzazione si esprime in nuove pratiche sociali e nuove forme organizzative di cui le piattaforme della sharing economy (e in particolare, ma non solo, quelle legate alla mobilità cittadina) sono sicuramente un aspetto emergente, ma non dobbiamo dimenticare che contestualmente si è aperto un dibattito sulla sostenibilità del nostro modello di sviluppo e sulle possibili soluzioni per una migliore convivenza che ha riportato in campo categorie desuete come la comunità. Si parla perciò di sharing/condivisione per molti dei fenomeni che caratterizzano il Web 2.0 coinvolgendo a vario livello centinaia di milioni di persone, che si passano, più o meno gratuitamente, informazioni, contenuti ludici immateriali, beni di consumo, case, mezzi di trasporto; che lanciano campagne di crowdfunding per finanziare autoproduzioni o progetti umanitari; che sperimentano modalità di vita di tipo conviviale.
Da un’ampia ricognizione svolta in tutta Italia nel biennio 2014-2015, (cfr. Bovone L.-Lunghi C. , a cura di, Italia creativa. Condivisione sostenibilità, innovazione, Donzelli, 2020), si è visto che c’è chi fa della condivisione un lavoro (responsabili di piattaforme per la mobilità o l’e-commerce, alcuni makers), chi la considera un modo per organizzare il proprio tempo libero o i consumi (partecipando a gruppi di acquisto, baratto, iniziative di social eating o di scambio di ospitalità), chi ne fa un manifesto politico/ ideologico (onlus, social street, movimenti di rivendicazione degli spazi urbani o dei terreni agricoli) o, più in generale, uno stile di vita e una prospettiva sociale (cohousing, making, coworking).
Gli attori sono soprattutto Millennials, per i quali la comunicazione digitale non solo non è un problema ma è uno strumento imprescindibile, che apre orizzonti virtualmente infiniti ai progetti dell’individuo o del piccolo gruppo: ”ma possibile che non esista una piattaforma che…”, “ma allora la faccio io”. Ma la comunicazione che fa di questi giovani i cittadini del mondo – socializzati da Erasmus, introdotti al lavoro da esperienze internazionali mediate da viaggi di piacere, da bandi europei o da esplorazioni sulla rete – ha quasi sempre un ancoraggio concreto in rapporti interpersonali di tipo non meramente strumentale, secondo la logica dell’affinità elettiva: un progetto di design condiviso incubato alla fine dell’università, una scelta alternativa di coabitazione, di lavoro o di consumo responsabile.
Anche il radicamento territoriale è tra le caratteristiche riconosciute della sharing culture più genuina. La necessità di uno spazio/casa in cui intessere relazioni faccia a faccia fa ovviamente parte delle esperienze di cohousing e di coworking ma ogni piattaforma ha praticamente una community di riferimento che rende evidente il continuum offline-online che la caratterizza. Le piattaforme turistiche, non solo quelle che offrono guide locali ma persino la mega piattaforma di Airbnb, si propongono come porte d’ingresso a un territorio abitato da visitare in compagnia; il turismo condiviso è più attento alle persone che ai monumenti, più desideroso di scambi orizzontali di esperienze che di spiegazioni erudite. L’esperienza vissuta insieme in un ambiente di comune interesse garantisce un’affinità culturale, è “l’esperienza sociale” per antonomasia. E non stupisce che anche nel caso del carpooling il passaggio in macchina favorisca una community online che risponde positivamente e attivamente anche alle proposte di incontro extra viaggio. Forse l’esempio più emblematico del continuum on line offline è quello della social street, dove tutto gira su Facebook ma tutto avviene in strada, con un intreccio di persone e di accadimenti che sembrano anticipare l’attuale obbligo di confinamento e la necessità di poter fruire di servizi di vicinato.
Se in molte di queste attività è evidente un’istanza morale, il desiderio di dare rilevanza sociale a un’impresa democraticamente istituita, ne consegue anche, in alcuni casi, l’intento educativo di diffondere una nuova logica di appartenenza in cui si armonizza progetto personale, di gruppo, di cambiamento sociale. Ma a questo risulta essenziale ancora una volta una comunicazione genuina, un’attenzione allo scambio non meramente virtuale e all’esperienza condivisa, in una parola alla dimensione relazionale.
La riflessione sulle esperienze di sharing ci permette perciò di completare il ragionamento che ho introdotto all’inizio di questo scritto.
La comunicazione digitale è stata una risorsa incredibile in queste settimane di isolamento; il lockdown avrà certamente il merito di farci progredire sulla strada della mediatizzazione, di colmare una certa parte del gap che ci divide da paesi europei più progrediti, di alfabetizzare in questo senso una parte dei giovani italiani che non hanno ancora accesso a un minimo di strumentazione informatica. Ma sicuramente ci avrà reso più consapevoli di come la comunicazione in presenza sia sempre e comunque necessaria per l’apprendimento, la vera socialità e l’esercizio delle prerogative democratiche.
Se poi l’esperienza di sharing ha senza dubbio avuto prevalentemente una matrice urbana, ha essa stessa indicato più volte delle possibili vie d’uscita dalle logiche dell’urbanizzazione e della globalizzazione di cui ci ha ampiamente mostrato i limiti la pandemia. Dal radicamento nei quartieri più popolari delle esperienze di convivenza che richiedono spazi cospicui a buon mercato agli orti urbani e periurbani con varie attività di fooding correlate, alle offerte del turismo alternativo, per alcuni sharing ha già significato una fuga dalle tradizionali lusinghe della città del consumo. E ha posto sicuramente le premesse per scelte di vita extraurbane in cui la convivialità e la comunità sono valori ancora in vigore, che non necessitano di essere reinventati.