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Civiltà Appennino

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Uno shock che cambia o uno sciocco che insiste?

Riflessioni di Paolo Pileri sull’editoriale “Uno shock che cambia?” di Piero Lacorazza

 

Piero Lacorazza mette il dito nella piaga: un Paese senza Istituzioni, non può essere un vero Paese. Verissimo. Ma non abbiamo neppur bisogno di un Paese le cui Istituzioni traccheggiano e, in un modo o nell’altro, si lasciano tirare la giacchetta da chi continua a proporre le solite cose, di chi continua a spingerle a tenere lo sguardo sulle solite politiche, a chi non ha nulla a che fare con l’interesse delle parti più fragili del Paese.

Mai come oggi abbiamo bisogno di Istituzioni che si sveglino dal sonno del ‘cosi si è sempre fatto’ per capire che abbiamo bisogno di Visioni. Si: Visioni, una parola quasi estinta o manomessa visto che sto parlando di Visioni disinteressate al profitto del ‘Carpe diem’, dell’avidità delle economie di rapina, della grande cultura italiana che diviene articolo di commercio e slogan per il peggior marketing. Se le Istituzioni ci devono essere, devono essere capaci di guidare il Paese verso un futuro che sarà diversissimo da come lo pensiamo ancora. Dovranno farci attraversare un mare aperto e farci capire che sanno dove andare, sanno il porto in cui approdare, sanno darci ottimi e nuovi argomenti. Qui invece non si naviga per nulla. Si fa qualche rematina e poi si torna indietro. La corruzione delle idee la fa ancora da padrone.

Prendiamo il Recovery Fund (che ho già ricordato chiamarsi più appropriatamente Next Generation https://altreconomia.it/recovery-fund-o-next-generation-stiamo-confondendo-le-acque/) sul quale discutiamo all’infinito. Non c’è da stupirsi se quell’opportunità – unica – rischi di franare miseramente nei mille rivoli e rivoletti delle proposte che arrivano in risposta alle migliaia di richieste fatte un po’ a caso a tutte le istituzioni locali a cui è stato chiesto, notte-tempo, di inviare progetti finanziabili un pò ‘alla qualunque’. Senza visione appunto. Governo chiede alle Regioni progetti. Le Regioni chiedono in ordine sparso ai Comuni che tirano fuori dai cassetti qualunque cosa. Regioni fanno la stessa cosa e chiedono pure ai loro enti partecipati come i Parchi i quali tirano fuori dai cassetti progetti che non è detto siano ancora buoni. Ma è così che le nostre Istituzioni vogliono prendere il mare aperto del difficile futuro che ci aspetta? Dove sta la riflessione? I comitati tecnico-scientifici si fanno solo (e pure male talvolta) per i virus una volta che si sono diffusi già?

Questa questua sul RecoveryFund mi pare, ancora una volta, lo specchio della nostra inerzia, dell’inazione assunta a teorema, del compromesso che accontenta tutti ma non risolve nulla a nessuno, della finta partecipazione dietro alla quale poi passeranno chissà quali ‘opere’. Il sapore è quello di una corsa per rinunciare a vincere il miglior premi che vorremmo: il cambiamento. Una corsa che rinuncia a quello che si dovrebbe fare ora: generare un pensiero grande, nel quale riconoscersi e dove riporre quello che abbiamo trascurato da sempre: le fragilità sulle quali possiamo generare lavoro e non continuare a piangerle. Il dissesto idrogeologico che ci stringe il collo ogni autunno è una priorità di investimento che non possiamo disattendere e a cui nemmeno possiamo inviare gli spiccioli che ci avanzano.

Contrastare il dissesto idrogeologico è la più grande opera pubblica che le nostre Istituzioni devono affrontare per dare futuro al Paese.

Ma devono farlo dandosi una visione che non può essere quella di fare qualche opera qua e qualche opera là, come capita e come vogliono fare. Ma, ad esempio, ci si deve dare dei criteri. Ad esempio: voglio lavorare di ingegneria naturalistica o cemento cemento cemento? Voglio ripulire le sponde fluviali e nel frattempo ridisegnare un nuovo modello di turismo che irradia le aree interne oppure non mi interessano i fiumi? Voglio mettere mano ai paesaggi alpini e appennini sapendo che sono un tutt’uno su cui depositare azioni ben coordinate di economia e sviluppo oppure chi arriva arriva e chi rimane indietro rimane indietro? Voglio continuare a incentivare qualunque impresa economica ovunque o voglio premiare la sostenibilità e smettere di incentivare anche la non sostenibilità? Voglio continuare a lasciare alle associazioni ambientaliste interi asset di sviluppo oppure voglio pensare di mettere in movimento nuovi posti di lavoro per i giovani? Cosa vuole fare il nostro complesso istituzionale? Solo raccogliere progetti dai cassetti e dai potenti e furbi per poi impacchettarli con qualche carta luccicante e dire che siamo stati bravi?

Per non parlare poi di Cambiamento Climatico, di inquinamento delle città, di congestione della mobilità veicolare, di rifiuti, di consumi di suolo sempre più inutili, ma ancora in crescita… Abbiamo bisogno di Visione e di argomenti e, aggiungo, di Selezione.

Mai come oggi, ripeto, che siamo rantolanti a terra perchè ci siamo offerti al primo virus che passava armati di un modello di sviluppo inceppato e deflagrato, abbiamo bisogno di istituzioni che aprano gli occhi, cambino stile e decidano per politiche selettive e non additive. Voglio dire che

non possiamo anche occuparci di sostenibilità, ma solo di sostenibilità.

Non possiamo volere la buona e la cattiva agricoltura, perchè la cattiva distruggerà le buone intenzioni della cattiva. Non possiamo sovvenzionare le grandi piattaforme logistiche e il commercio on-line e pretendere con quattro spicci di sostenere un pò di negozietti in Appennino, perchè questi ultimi moriranno schiacciati dai primi e noi andremo al loro funerale. Non possiamo cadere ancora nella trappola delle grandi opere su cui concentrare tutto l’orgoglio italico (peraltro collassato un paio di anni prima per mancanza di manutenzione e sorveglianza, due virus mortali dell’italico governo del territorio), ma dobbiamo lavorare alla manutenzione complicata di un Paese – non dimentichiamolo mai – fatto di pendii, valli, fiumi e tanta bellezza sparsa qua e là.

Siamo di nuovo davanti a un bivio. Aiutiamo solo i forti che sanno cavarsela benissimo da soli perchè, a detta loro il mercato lo conoscono come le loro tasche, pensando che qualche briciolina andrà anche ai deboli (famosa e fallimentare politica del trickle-down di un certo liberismo)? O decidiamo di invertire i pesi per una volta tanto e aiutiamo le comunità e i territori più fragili che, paradosso e peculiarità al tempo stesso di questo Paese, tengono in piedi forse il 70% della sua superficie e il 25% dei suoi abitanti (in emorragia costante)? che facciamo?

Lasciamo il 70% del Paese a quella che Piero Lacorazza chiama ‘buona anarchia’ (fintanto che sarà buona) e giriamo la testa verso 4 grandi città-metropoli dove gli affari girano? Mettiamo in piedi una bella sceneggiatura per assolverci, dove ogni tanto diamo qualche premio e riconoscimento ai volontari del comune xy oppure qualche finanziamento all’associazione xy che con i suoi volontari tiene aperto ogni tanto il museo quel tanto che basta o fa pedalare quattro turisti sui sentieri appenninici; facciamo qualche visita presidenziale per far vedere che le istituzioni ci sono…e poi si torna in città. No, così non si può entrare in un futuro decente e dignitoso.

Occorre visione e cambiamento, visione e coraggio, passione per le fragilità, amore per i pendii. Forse le istituzioni in questo momento sono, come Ulisse, davanti alle sirene ammalianti. Le sirene sono il solito modello di sviluppo, la normalità potremmo dire per provocazione, sono i buoni consigli dei protagonisti del mercato, sono i grandi CEO delle super aziende che fino a ieri speculavano a colpi di future e superbond e oggi snocciolano, pacifici, consigli per il Paese e noi li beviamo come sciroppo. Le istituzioni sono Ulisse e i suoi marinai che passano davanti a quelle sirene ammalianti. O le istituzioni si mettono la cera nelle orecchie e si fanno legare all’albero maestro riuscendo ad andare oltre per scoprire che ci sono alternative promettenti, o cadranno – e tutti noi con loro di nuovo – nella miseria del vecchio modello di sviluppo, un po’ ritinteggiato di verde e sempre pronto a dire che la tecnologia, solamente, ci salverà. Tappi nelle orecchie e nessun ritorno alla normalità.

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credits photo: https://it.wikipedia.org/wiki/Ulisse_era_un_fico#/media/File:Ulysse_bateau.jpg

 

Paolo Pileri
ordinario di pianificazione territoriale ambientale |full professor of landscape&Land use planning DAStU Politecnico di Milano www.dastu.polimi.it/|www.cicloviavento.it/
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